La riforma tributaria è il banco di prova su cui la destra, ancora una volta, dà solo messaggi spot
Alla voce riforma del Fisco, a destra non si scorgono proposte logiche, coerenti e condivise in vista di una revisione organica della materia
La legge di Bilancio sta esitando in un caos emendativo che da una parte era scontato, visti i tempi ristrettissimi, dall’altro no perché conferma un sospetto: i partiti della maggioranza non avevano mai affrontato tra loro seriamente un chiarimento di come, dove e quanto mettere le mani una volta vinte le elezioni. L’approvazione in Consiglio dei ministri ha rinviato in Parlamento i nodi da sciogliere, con Lega e Forza Italia impegnati nel tentativo di fare rientrare ciò che nel testo non c’era ma era a loro caro. Non è dunque solo la conferma dell’aggiramento patologico del Parlamento, di anno in anno sempre più grave, sulla legge di Bilancio, con inascoltati richiami del Quirinale.
Per le condizioni di salute attuali e future della maggioranza, è un incipiente intrascurabile segnale di patologia: dovrebbe preoccupare innanzitutto chi la guida da Palazzo Chigi. C’è poi un tema fra tutti in cui il caos è ancor più patologico. E’ il fisco. Tutto il chiagni e fotti dell’egemonia culturale della sinistra da sostituire resta puro colore, se questa destra di governo non ha idee chiare su come cambiare – perché e in che modo, a quale fine e con che riequilibrio sul fronte della spesa – l’immenso prelievo tributario e contributivo del nostro paese. La Lega continua a lavorare indefessamente allo scasso dell’Irpef attraverso forfait sempre più estesi agli autonomi, allo scasso del bilancio Inps attraverso prepensionamenti, alla rottamazione delle cartelle tributarie. Forza Italia pensa solo all’aumento delle pensioni.
Il viceministro al Mef, Maurizio Leo, vicino al presidente del Consiglio, nei giorni in cui Giorgia Meloni era al G20 in Indonesia ha fatto trapelare ai media che oltre una cospicua (e giusta) riduzione del monte interessi e sanzioni a chi è in ritardo nei pagamenti fiscali ci sarebbero stati condoni, e il premier di ritorno ha dovuto farne piazza pulita tanto che sparirono in Consiglio dei ministri, per poi riemergere come emendamento di Forza Italia nella forma di un osceno condono penale per omessa e falsa dichiarazione, ora per fortuna spazzato via anch’esso.
In tutto ciò non affiora neanche l’ombra di un pensiero logico, coerente e tanto meno condiviso in vista di una riforma organica. Che è stata promessa, visto che la legge delega di riforma della scorsa legislatura è caduta con le elezioni anticipate, e del resto non era granché, perché figlia del compromesso autoelidente fra partiti. Tutte le vere riforme fiscali organiche come quella Vanoni nascono da commissioni di studiosi che arano il campo, non da bandierine di partito piantate attraverso interventi a margine che rendono ancor più mostruoso e distorsivo il prelievo. In Italia siamo passati nei decenni da un sistema del beneficio, per usare la formula einaudiana del prelievo raccolto e usato il più possibile in prossimità del contribuente per rendergliene evidente l’uso e l’effetto della spesa pubblica cui contribuisce, al principio del sacrificio, in cui la cosiddetta progressività è sì costituzionalmente fissata, ma di fatto è arbitraria e contraddittoria, e in ogni caso il Moloch della spesa è totalmente oscuro agli occhi del contribuente. Onerosissimi bonus a pioggia regressivi sono stati varati da destra e sinistra rinviando ogni riforma seria, abbiamo infittito forfait proporzionali decisi dallo stato secondo una discrezionale etica su come il reddito si realizza e come lo si usa: paghi meno di tutto se investi in titoli pubblici, più del doppio su un’impresa, meno se in immobili però col tipo di affitto che decide lo stato.
Pratichiamo la doppia tassazione sia su quando realizzi un reddito sia su quando ne incassi una parte divenuta capitale a incasso differito; riusciamo in questi momenti a far convivere quattro diverse forme di extraprelievo sulle imprese energetiche fondate sia su Iva sia su Ires con doppia diversa distinzione per le rinnovabili; abbiamo reso la retroattività delle norme sempre più ordinaria; conviviamo con forme di prelievo contributivo distinte per tipologia d’impresa, per cui l’industria paga uno sproposito rispetto alle altre e rispetto a quanto poi usa la Cig, ormai estesa a quasi tutti; scambiamo le aliquote piatte agli autonomi per tassazione “degressiva” quando per la letteratura e per l’esperienza tributaria internazionale essa ha tutt’altre caratteristiche, finalità ed equilibrio generale.
Una destra che si rispetti dovrebbe avere idee precise, su tutto questo e su come riordinare la spesa. Dal 1636, quando John Hampden si fece imprigionare da Carlo I rifiutando l’idea che il sovrano potesse decidere ciò che voleva sulle tasse – e alla fine fu re Carlo a rimetter la testa sotto la scure del boia –, dovrebbe essere chiaro a destra e a sinistra che il fisco è la delicata frontiera di libertà in cui la pretesa dello stato dev’essere giustificata da ciò che lo stato in concreto riesce davvero a fare di ciò che raccoglie. Modesto suggerimento finale, non immaginando certo che la pugna elettorale che contrappone le tre forze della maggioranza possa svanire. Organizzate una serie di seminari interni riservati coi vostri “esperti”, mettendo al centro la summa tributaria liberale comparata e aggiornata al caso-Italia. E’ uscita ormai 8 anni fa per i tipi del Mulino, si intitola “La giustificazione sociale dell’imposta”, l’ha scritta il professor Dario Stevanato che è ordinario a Trieste. C’è una buona risposta su cosa fare per ogni aspetto dell’imposizione diretta e indiretta, su persone fisiche e imprese, e proprio perciò non è fatta di slogan ma di 770 solide pagine.