La madeleine natalizia di D'Alema vignaoiolo tra l'Umbria a la Cina

Michele Masneri

Il filo rosso come il vino che lega D’Alema ai cinesi di Zte. Che amano quello prodotto nella sua tenuta

La notizia di cui tutti parlano a Roma tra Natale e Capodanno è che la Zte, colosso cinese delle telecomunicazioni, emanazione più o meno diretta del governo di Pechino, dunque colosso un po’ inquietante, avrebbe mandato come omaggio natalizio a dirigenti e “stakeholder” una cassetta di “Sfide”, uno dei vini prodotti da Massimo D’Alema in Umbria.

 

Cerchiamo conferme ma non arrivano, “questi cinesi sono dei pulciari”, mi dice anche un ex manager dell’azienda deluso (non ha ricevuto il pacco). Rinunciamo al fact e wine checking. Ma al netto della fama di lobbista internazionale o come dice lui di consulente, specializzato in autocrazie, dal Venezuela appunto alla Cina, ritorna in primo piano l’intervento entusiastico di D’Alema al convegno organizzato proprio dal gruppo cinese due anni fa, avente come titolo “Perchè avere paura del 5G? Quando la conoscenza crea valore”, e si sa che il 5G è una delle specialità della Zte.

 

La specialità di D’Alema, quella che gli piace di più, è invece il vino, che ha sostituito negli anni la vela. La Madeleine, la tenuta in cui lo produce coadiuvato dall’enologo “dei vip” Riccardo Cotarella, quello che crea anche il vino di Bruno Vespa, per intenderci, fu acquistata anche coi soldi ricavati dalla vendita del vecchio Ikarus. Ma nella vigna D’Alema ha finalmente trovato il suo ubi consistam. Lo si incontrò anni fa, nel 2014, ai famigerati “Oscar del vino”, cerimonia dove di anno in anno si premiano le migliori bottiglie. Lì Max sembrava finalmente rilassato, col suo smoking, tra conti e contesse del vino. Come nel conte Max scattò tutto un equivoco di cui poi si scrisse: ero andato a ritirare un premio anch’io, per dei cugini produttori di Malvasia a Salina, avevo comprato un tragico smoking 100 per cento poliestere da Zara ad alto rischio autocombustione; il conte Max mi confidò della figlia che voleva andare a studiare a New York ma lui avrebbe preferito (profetico) Shanghai; che la produzione della Madeleine andava fortissimo soprattutto in Mongolia (sic!). Poi con gli anni sarà arrivata la Cina.

 

Ma che sera quella sera: mentre un gruppo folkloristico suonava mazurke in costume tipo rondò veneziano nel basement dell’Hilton a Monte Mario il conte Max terrorizzava i camerieri. “Mi sembra che sappia leggerissimamente di tappo”, disse a un certo punto di una bevanda che ci venne propinata da commessi dotati di taste-vin, quello che secondo la leggenda Giorgia Meloni avrebbe scambiato per portacenere proprio a casa Vespa. Max pronunciò quel “leggerissimamente” spingendo in fuori le labbra come nel celebre “diciamo”, e scuotendo impercettibilmente la testa, sbattendo gli occhi, insomma tutto l’apparato di movimenti facciali che ce lo fa amare. Il cameriere scappò via tornando immediatamente con una nuova bottiglia. Con noi il conte Max era amabilissimo, disse “brindiamo al vincitore!”, che ero io, cioè per il vino dei miei cugini, c’era pure Cotarella e brindò pure lui. Io inanellai gaffe colossali, scambiando per esempio il leggendario Angelo Gaja per Giovanni Rana (ma si assomigliano), e perdendomi in baciamani tra marchese Frescobaldi e Antinori (“alla fine di quel giro di presentazioni Fantozzi era completamente ubriaco”).  

 

Poi tempo dopo andai proprio alla Madeleine, rimanendo un po’ deluso perché mi aspettavo un castello, una tenuta, almeno un casale o casaletto. Posta oltretutto in quella “strada di Montini” che pensavo ispirata al Papa bresciano, e invece era una zona di piccoli colli un po’ sgarrupati, verso Otricoli, “comune gemellato con Mstów, nella Polonia meridionale”, informava un cartello. Lo chateau D’Alema era tutto moderno, con cancello elettrico e la parabola come appunto le villette dei piccoli imprenditori bresciani. Alla Madeleine oltre al cinese “Sfide” si produce il NarnOt, un merlot crasi di Narni e Otricoli, i due borghi tra cui è posta la tenuta; e anche un NerOsé, un brut a base pinot nero, anche se il nome sembra da lingerie (e forse, per i cinesi, un po’ troppo spinto). 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).