Foto di Claudio Peri, via Ansa 

da Taranto

Come il decreto Urso affronta la crisi industrial-giudiziaria dell'Ilva

Annarita Digiorgio

Il governo ha ripristinato lo scudo penale. E con esso, il dl aggiunge la possibilità di continuare a produrre anche in caso di sequestro. E per la crisi di liquidità fornisce 680 milioni. La protesta strumentale dei sindacati, e non solo

Il governo ha reinserito lo scudo penale per l’Ilva e tutte le aziende strategiche di interesse nazionale. Una scelta coraggiosa se il senatore Mario Turco, attuale vice di Conte e suo ex sottosegretario, ha subito commentato: “Il governo ripristina il diritto di uccidere”. Fu proprio il M5s, abolendolo, a portare ArcelorMittal al deconsolidamento della controllata italiana cancellando l’investimento contrattuale da 4 miliardi, poi sostituito da Conte con soldi statali. Di fatto l’ad Lucia Morselli è stata l’unica a gestire la fabbrica per quattro anni senza scudo penale, ma non si trovano manager pubblici disposti a fare altrettanto.

 

È per questo che  il governo lo ha ripristinato nella stessa formulazione prevista nel 2015 dal governo Renzi per i commissari straordinari. Ovviamente non è una licenza di uccidere dato che, come in precedenza, è legato solo all’attuazione del piano ambientale e “non si applica quando dalla prosecuzione può derivare un concreto pericolo per la salute o l’incolumità pubblica ovvero per la salute o la sicurezza dei lavoratori non evitabile con alcuna prescrizione”.

 

Oltre questo, il decreto inserisce un’altra cosa fondamentale: la possibilità di continuità produttiva anche in caso di sequestro. Superando l’autorità giudiziaria, che non più di un mese fa nelle motivazioni della sentenza di primo grado nel processo del 2012, scriveva “anche un’eventuale realizzazione completa dei lavori Aia, ritenuti idonei a risolvere i problemi ambientali del siderurgico, non darebbe alcuna garanzia di certezza sul rendimento non inquinante degli impianti stessi, in considerazione del previsto incremento della produzione... ma dovrà essere l’Autorità Giudiziaria a effettuare tale valutazione, che al momento non può essere effettuata dato che l’impianto a caldo del siderurgico tarantino risulta attualmente operativo a meno della metà della sua forza produttiva”.

 

Di fatto la Corte d’assise di Taranto si è arrogata il potere di decidere se la legge che consente a Ilva di produrre è sufficiente, e di effettuare tale verifica solo quando l’impianto verrà portato al limite consentito. In altre parole la Corte chiede di portare l’impianto alla massima potenza per verificare se sia legale, mentre nega il dissequestro perché lo considera illegale già ora a metà potenza: una situazione paradossale. Su questo è intervenuto il decreto Urso, in accordo col ministero della Giustizia: “Non possono essere applicate sanzioni interdittive quando l’ente abbia adottato modelli organizzativi coerenti con quelli delineati nei provvedimenti relativi alla procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale diretti a realizzare il necessario bilanciamento tra esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia degli altri beni giuridici”. 

 

Rispetto a questo un altro tassello è dato dal tetto di spesa introdotto per commissari straordinari e custodi giudiziari. Il dl prevede ulteriori norme per scoraggiare comportamenti dilatori nelle procedure di amministrazione straordinaria con un “limite massimo complessivo di 500 mila euro anche in caso di incarico collegiale”. Mentre lo stesso giorno della lettura della sentenza di primo grado la Corte di assise di Taranto stabiliva il compenso del collegio del custode giudiziario Barbara Valenzano, dirigente regionale appena nominata da Michele Emiliano responsabile del Pnrr, con oltre un miliardo di euro (1,39 miliardi).

 

Ma siccome il problema imminente dello stabilimento è la crisi di liquidità, il decreto fornisce i 680 milioni già stanziati per un futuro aumento della quota societaria pubblica. Una decisione diversa dall’idea iniziale ministro Adolfo Urso, poi riportato al rispetto contrattuale dal collega Raffaele Fitto nonché dalla stessa Meloni.

 

È strumentale dunque la protesta che stanno inscenando Uilm, Fiom e Usb scortati da Emiliano e dal sindaco (Pd) di Taranto che ancora ieri ha chiesto la chiusura dell’area a caldo. “Tutti tranne la Fim – dice il segretario generale Valerio d’Alo –  stanno andando a manifestare per sostenere la posizione del sindaco di Accordo di Programma e superamento dell’area a caldo, che vuol dire chiusura totale dello stabilimento. Di sicuro noi non presteremo il fianco a chi, fino a ora, doveva garantire corsi di formazione senza riuscirci (Emiliano), figuriamoci se si sarà in grado di rioccupare più di 20 mila lavoratori ”. Che poi è la posizione di chi è contrario al decreto Urso. 

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