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continuità e identità

In Europa, a Meloni manca lo slancio per far andare veloce l'Italia

Claudio Cerasa

La premier va dritta lungo la via segnata da Draghi sul 70 per cento dei temi, poi ci sono le deviazioni su immigrazione, pandemia e sulla mania di puntare bandierine ideologiche che fan perdere tempo e risorse  

Il punto è tutto qui: settanta per cento continuità, trenta per cento identità. I temi affrontati ieri da Giorgia Meloni nel corso della sua prima conferenza stampa di fine anno da presidente del Consiglio confermano che la pericolosa scommessa fatta qualche settimana fa da Carlo Calenda, leader del Terzo polo, ha sempre maggiori probabilità di non avverarsi. Calenda, ricorderete, all’inizio della stagione meloniana arrivò a dire che il governo di centrodestra avrebbe avuto una vita molto complicata, praticamente impossibile, e in una serie di interviste perentorie, alla fine di ottobre, fece tre previsioni. La prima: il governo Meloni durerà sei mesi. La seconda: il governo Meloni terrorizzerà i mercati. La terza: il governo Meloni sarà dilaniato dalle sue divisioni interne. All’epoca vi erano buone ragioni per pensare che il governo Meloni avrebbe incontrato sulla sua strada diversi ostacoli, non così tanti forse da giustificare una previsione di poche settimane di vita, ma due mesi dopo, a conti fatti, alla luce di come si è mosso finora il governo, e anche alla luce di una serie di temi emersi ieri nel dialogo con i giornalisti, ci sentiamo pronti noi per una previsione altrettanto spericolata.

 

La previsione è questa: no, caro Calenda, il governo non durerà pochi mesi e le ragioni che hanno spinto tra ottobre e dicembre i mercati a mostrare una buona dose di fiducia nei confronti del governo Meloni, in piccolo, possono aiutarci a capire il perché.

 

Proviamo a sintetizzare e ad andare dritto al punto. Nonostante la rivendicata discontinuità del governo Meloni dal suo predecessore, Mario Draghi, sulla stragrande maggioranza dei dossier con cui si trova a fare i conti oggi il governo dei sovranisti la continuità con quel passato che doveva essere rimosso oggi è pressoché totale. E’ totale sulla politica energetica europea (vedi la battaglia sui price cap). E’ totale sulla politica energetica interna (vedi il sì ai rigassificatori). E’ totale sul sostegno all’Ucraina (vedi il sì all’invio delle armi). E’ totale sulla quota di pil da destinare a sostegno della Difesa (vedi le parole di ieri di Meloni sul fatto che “la libertà delle nazioni ha un costo”). E’ totale, ancora, sulle sanzioni contro la Russia (vedi il sì annunciato al rinnovo). E’ totale nei rapporti internazionali (vedi l’assoluto atlantismo). E’ totale sull’attenzione al debito (vedi la mancanza di scostamenti di bilancio). E’ totale sull’attenzione al Pnrr (le critiche al governo precedente ci sono, la volontà di cambiare il Pnrr pure, ma gli ingiusti rimproveri rivolti al predecessore da parte di Meloni indicano una direzione comunque rassicurante: provare a essere sul Pnrr persino più veloci del governo Draghi, e fino a oggi la velocità del governo Meloni, sul Pnrr, è stata all’altezza del governo Draghi, anche grazie al lavoro del ministro Raffaele Fitto). E’ totale, ancora, sul riconoscimento del ruolo cruciale che ha la Commissione europea nell’indirizzare le politiche di finanza pubblica del paese (così cruciale che ogni volta che Meloni ha avuto la possibilità di litigare con la Commissione ha sempre scelto di mediare anche a costo di arretrare in modo clamoroso, come sul Pos). E’ totale, infine, sull’attenzione al tema del garantismo (il ministro Nordio, generosamente, ha più volte affermato di sentirsi in continuità con l’ex ministro Cartabia, ma nella lotta contro il circo mediatico giudiziario questo governo è decisamente più draghiano dello stesso governo Draghi, le cui catene grilline hanno impedito di fare sfoggio di garantismo pragmatico, eccezion fatta per i temi legati all’ergastolo ostativo, terreno su cui Meloni sembra avere convergenze più con il modello Bonafede che con il modello Nordio).

 

Ciò che è cambiato negli ultimi mesi, in modo sostanziale, rispetto al passato, ed è naturale che gran parte delle domande di ieri si siano concentrate su questi punti, riguarda la postura avuta dal governo su tre temi non indifferenti, ma non così importanti da essere delle micce accese sotto la sedia del capo del governo. Andiamo per ordine.

 

Il primo tema, sul fronte della discontinuità, riguarda certamente la gestione dell’immigrazione, la cui vera discontinuità con il passato governo, però, riguarda la volontà di rivendicare alcune decisioni che il governo precedente non rivendicava, come mostrare sul fronte delle ong una fermezza altrove impossibile da mostrare (attraverso le ong arriva circa il 16 per cento di migranti ogni anno dall’Africa, ma una volta che crei un mostro, le ong, conta più, per il tuo elettorato, demolire quel mostro che occuparsi di numeri).

 

Il secondo tema riguarda la volontà di segnare una rottura con la stagione delle dure scelte approvate dai governi precedenti per contrastare la pandemia. Scelte che sono state via via diluite nei mesi, come le multe ai medici No vax, ancora in vigore (anche se la scelta fatta dal governo di tamponare tutti gli arrivi dalla Cina è in perfetta continuità con quanto fatto dall’odiato governo Conte-Speranza nel 2020). Scelte che il governo ha potuto mettere in campo grazie a una campagna di vaccinazione che nonostante l’impegno contrario dei sovranisti ha avuto successo (e che in ogni caso non appaiono disomogenee dalle scelte fatte in diversi paesi europei, molti dei quali hanno deciso di ricucire anche con quella fetta di popolazione che aveva masticato con forza il negazionismo sui vaccini). Ma scelte che potrebbero essere molto rischiose se il governo, specie in presenza di una possibile variante pericolosa proveniente dalla Cina, dovesse portare avanti ancora una strategia ambigua sulle vaccinazioni, continuando cioè a invitare a vaccinarsi solo i fragili e non tutti gli altri cittadini (ieri Meloni, durante la conferenza stampa, ha avuto l’occasione di dire agli italiani “vaccinatevi tutti” e invece, sul tema vaccini, ha consigliato agli italiani di rivolgersi al proprio medico di fiducia, confermando l’adesione del proprio governo all’ideologia Boh vax).

 

Il terzo tema, più delicato, riguarda invece la volontà di dedicare molto tempo alla creazione di bandierine, utili a far dimenticare (a) tutte le retromarce ingranate dal governo Meloni e (b) tutte le promesse tradite (basti pensare che tra pochi giorni il governo nato per abbassare le accise sarà quello che le farà aumentare, a partire dal primo gennaio). E il punto, qui, è che lo sventolio di queste bandiere, molte delle quali riguardano partite fiscali, sottrae tempo prezioso per issare altre bandiere, più consistenti, che sono quelle che riguardano l’Europa, dove, ed ecco la vera notizia preoccupante dell’èra Meloni, la consapevolezza delle grandi partite da affrontare, da gestire, da governare, appare essere prossima allo zero, complice anche una consistenza europea del ministro dell’Economia tutta ancora da costruire, per così dire. Molta attenzione dedicata alla flat tax, poca al patto di Bilancio. Molta attenzione al Mes, poca alla fiscal capacity. Molta attenzione alle ong, poca alla redistribuzione dei migranti in Europa. Molta attenzione al Pos, allo Spid, alla battaglia luddista del governo, poca attenzione a come utilizzare la dorsale dei finanziamenti europei in una occasione per investire, non a parole, sul futuro dell’Italia (e scommettere sul dottor Butti per far fare progressi sull’innovazione dell’Italia è come scommettere sul dottor Toninelli per far fare progressi all’Italia sulle infrastrutture).

 

Nelle partite che contano per la nostra reputazione, l’Italia di Meloni non è meno solida dell’Italia di Draghi. Nelle partite che contano in Europa, l’Italia di Meloni, almeno finora, non sembra invece avere la stoffa, la forza e l’acume per evitare di essere schiacciata nella battaglia tra le egemonie tedesca e francese. E con i tassi che aumentano, il credito delle banche che rischia di restringersi, l’economia che si andrà inevitabilmente a contrarre, ciò che oggi è necessario per governare l’Italia potrebbe non essere sufficiente per farla crescere come potrebbe e come meriterebbe. La sfida del governo Meloni, governo fatto al settanta per cento di continuità e al trenta per cento di identità, è tutta qui. Non come evitare di far deragliare il treno dell’Italia (non siamo nel 2018) ma come provare a farlo andare ancora più veloce.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.