la parabola del carroccio
Il declino di Salvini e le chance per la Lega di ritrovare la Pancia del Nord
Bossiani contro il segretario del Carroccio; ma oltre a queste due anime ci sono l’europeismo di Giorgetti e lo stile Zaia. Come riconquistare i territori perduti
Un osservatore esterno che volesse descrivere la Lega di oggi dovrebbe probabilmente fare un passo indietro rispetto alla contrapposizione che pure sta animando i congressi territoriali e quindi privilegiare la ricognizione delle culture politiche rispetto alla semplice descrizione delle (due) posizioni a confronto. Volendo, infatti, nel mondo leghista di oggi si possono individuare fino a quattro differenti filoni di interpretazione della realtà e di conseguente proposta. Il primo, non certo per importanza ma quantomeno per rispetto della senioritas, è quello che riporta a Umberto Bossi e al Comitato del Nord del duo Grimoldi-Coccia. E’ evidente che per il carisma del Senatùr e per il posizionamento tradizionalista che il Comitato ha assunto nella querelle politica questo filone sta dentro il sindacalismo di territorio delle origini, rimanda quindi più a ciò che è stato che a ciò che sarà. E queste considerazioni valgono al netto delle accuse che pure circolano all’interno e che vedono il Comitato nella veste di un club degli esclusi e degli scontenti. I senza cadrega, per dirla in carroccese stretto.
Il secondo filone è quello che fa capo al segretario Matteo Salvini e resta in questa fase predominante. Ha innovato e molto rispetto alla tradizione bossiana e anche alla variante maroniana perché ha puntato sul partito nazionale, ha diluito la presenza sul territorio concedendo il primato alla comunicazione social degli episodi più minuti della vita del leader e persino delle sue preferenze gastronomiche. Pensiamo poi alla politica estera dove la componente filorussa è ancora largamente protetta e ha goduto a più riprese dell’appoggio del segretario, in questo dirazzando rispetto alla tradizione tutto sommato filo-occidentale delle origini. Aggiungiamo il peso concesso alle battaglia contro l’immigrazione e le ong che comunque appaiono differenti dalle polemiche contro “i terùn” che alla fine costituivano una sorta di lessico famigliare della Lega di Bossi. Poi se vogliamo aggiungere del pepe vale la pena sottolineare come la proposta di costruire il Ponte di Messina, sostenuta da Salvini a capo delle Infrastrutture, fa a pugni con la vecchia impostazione leghista che non avrebbe certo dato il suo assenso a una politica di incerti investimenti al Sud.
Il terzo filone è quello che si può riassumere nella figura di Giancarlo Giorgetti, il leghista più stimato da Mario Draghi ma anche l’esponente del Carroccio che ha fatto evolvere in chiave europeista il sindacalismo di territorio e che oggi lo riconduce non tanto alla distribuzione di risorse interne Nord-Sud quanto a rinsaldare il legame triangolare con Francia e Germania, assecondando la presenza dell’industria italiana di beni intermedi dentro le grandi catene del valore renane. Non solo quindi pragmatismo di governo e dialogo persino con i tecnocrati ma una visione del Nord sicuramente in sintonia con le evoluzioni della globalizzazione per macro-aree regionali. Il quarto filone, infine, riporta al governatore dei record (di consenso) Luca Zaia e alla doppia corsia inaugurata ancora di recente. Dove accanto al chiodo fisso, o se preferite alla bandiera sventolata h24, dell’autonomia veneta trova posto una recherche politico-culturale illustrata nel suo ultimo libro. Un riposizionamento che i maliziosi hanno ascritto alla fervida fantasia degli editor della Marsilio ma che comunque parla di rinnovamento culturale sui temi della redistribuzione sociale, del rapporto con l’immigrazione e persino dei diritti delle minoranze sessuali, tema che i leghisti delle origini – e forse lo stesso Zaia – erano soliti risolvere con battutacce da osteria. Il difetto di questa mappa è solo uno: di essere confezionata dall’esterno e in un partito come la Lega, ormai l’abbiamo capito, è più difficile da fuori riuscire a individuare le vere tendenze. Insomma è una mappa che convince più gli analisti che i leghisti. Che invece indicano un altro percorso. Seguiamolo.
La fase ascendente della leadership di Salvini durata fino a due anni fa è stata essa stessa una mutazione genetica della Lega perché l’ha lasciata spiaggiata sul divano. Tutti gli spazi venivano riempiti dal segretario, tutto il consenso nasceva da lui e sgocciolava sui candidati che dovevano solo fare la fatica di stampare un manifesto con Matteo et voilà. In definitiva il rapporto fiduciario con gli elettori era rimandato ai suoi successi e a poco altro. Ma proprio l’esperienza di Matteo Ovunque, la personalizzazione estrema della sua leadership, ha svuotato il partito di quella militanza e partecipazione che ne costituivano l’anima. Erano il companatico del sindacalismo di territorio, tolto il quale però quella formula politica ha perso sapore e consistenza. Per essere onesti bisogna rammentare come questo svuotamento è coinciso con un altro fenomeno che ha depotenziato la presenza fattiva dei militanti, ovvero il Covid. Da qui la destrutturazione del partito che ha fatto sì che saltasse l’equazione Lega uguale Pancia del paese e ha permesso, alla fine, alle ultime politiche l’incredibile e silenziosa trasmigrazione di consensi liquidi da Salvini a Giorgia Meloni. Con il paradosso che quello che era nato come partito del Nord vale nelle “sue” regioni la metà di quello che era nato come un partito di Roma e ha come leader una figlia della Garbatella. Il sindacalismo di territorio è rimasto quindi quasi una tecnica politico-amministrativa ma senza la Pancia e i suoi riti. Tra i quali il podio va sicuramente al raduno di Pontida con militanti che ci vanno religiosamente da 30 anni perché quello è il luogo in cui la Pancia si riconosce, si guarda allo specchio e si autocelebra.
Salvini nella rincorsa mediatica verso il sogno di tornare al pre Papeete non riesce a ri-tematizzare la partecipazione, l’emotività, l’assieme, come caratteri costitutivi della Lega e procede per confusa addizione di segnali politici. Bulimia comunicativa. Certo, alle Infrastrutture si muove per sbloccare le grandi e piccole opere e apparire così ancora una volta sindacalista di territorio, ma poi somma questo sforzo alla proposta del Ponte di Messina e quindi azzera, agli occhi della Pancia, il valore della sua azione. In più oggi che il suo faccione da solo non garantisce rielezioni a go-go capita il contrario, la diaspora di dirigenti locali varesotti verso FdI che quanto a future vittorie elettorali sembra dare maggiori garanzie. Insomma è come se Matteo non volesse farsi carico dell’unicità della Lega, del suo somigliare al vecchio Pci, e si incaponisse sullo schema che lo aveva portato, per una breve stagione, in testa ai sondaggi. Il partito nazionale opposto di fatto alla riconquista della Pancia, la voglia di rappresentare Sud e Nord, di fatto lasciando il primo a Giuseppe Conte e il secondo a Meloni. Quindi, a dar retta ai leghisti, più dei quattro filoni il focus sta nel deficit di spirito comunitario, l’eredità svenduta per un piatto di lenticchie social.
Messa così la storia della Lega, al di là della conta furiosa dei voti nei congressi di base, sembrerebbe segnata. Più Salvini, meno partecipazione. C’è una sola ipotesi che potrebbe invertire la tendenza ed è quella di riuscire a ricombinare la Pancia con l’economia, ma quella di oggi non quella di ieri. Di mixare alto e basso, soluzioni credibili e annunci politicamente scorretti. Chi si avventura a fare qualche esempio parla della battaglia contro l’editto di Bruxelles che fissa al 2035 la fine del motore a scoppio. Una battaglia che portata in campo aperto – e non solo nei convegni come adesso – avrebbe il vantaggio di parlare chiaro sia agli imprenditori sia agli operai della componentistica auto (entrambi a rischio), che sarebbe antica e moderna assieme solo se sapesse poi spiegare a una platea larga i vantaggi della neutralità tecnologica versus il full electric. Un altro esempio – che circola e che è stato ventilato da Calderoli – è il recupero del ruolo delle Province, obiettivo che sa di sindacalismo di territorio e nelle intenzioni degli sponsor leghisti incrocerebbe di sicuro l’attenzione e il consenso dei corpi intermedi. Per ora però si tratta solo di esercitazioni a tavolino, nei congressi la conta avviene in realtà sulla fedeltà al leader.