L'editoriale del direttore
Avere il senso del limite è la forza della destra italiana a guida Meloni
Non essere come Trump o Bolsonaro o Le Pen. Non essere contro l’Europa. Non essere contro i diritti. Non essere un pericolo per il debito pubblico. Perché l’affidabilità futura della destra meloniana passa da qui: dal “non essere” più che dall’“essere”
Chiudete gli occhi e provate a fare un esperimento: Meloni a parte, quali leader di destra, di successo, vi vengono in mente in giro per il mondo? Mentre proverete a rispondere a questa domanda, apparentemente semplice, è possibile che la vostra risposta, inspiegabilmente, tardi ad arrivare. E la ragione di questo ritardo è comprensibile. Negli Stati Uniti chi governa? Un democratico: Joe Biden. In Canada chi governa? Un democratico: Justin Trudeau. In Brasile chi governa? Un socialista: Luiz Inácio Lula da Silva. E in buona parte del resto del Sudamerica chi governa? Un socialista in Cile. Un socialista in Honduras. Un socialista in Perù. Un socialista in Colombia. E in Giappone chi governa? Un liberaldemocratico: Fumio Kishida. E in Europa le cose non vanno diversamente. In Germania chi governa? Un socialdemocratico: Olaf Scholz. In Spagna chi governa? Un socialista: Pedro Sánchez. In Portogallo chi governa? Un socialista: António Costa. In Finlandia chi governa? Una socialista. In Danimarca chi governa? Una socialista. In Francia chi governa? Un liberale: Emmanuel Macron. In Belgio chi governa? Un liberale: Alexander De Croo. In Olanda chi governa? Un altro liberale: Mark Rutte.
Per trovare qualche leadership di destra o di centrodestra degna di questo nome occorre fare un salto in Israele, dall’eterno Bibi Netanyahu, occorre fare un salto fuori dall’Unione europea, da Rishi Sunak, primo ministro inglese, o occorre, per restare in Europa, rifugiarsi in qualche paese che si trova fuori dal G7, e andare in Polonia, in Grecia, in Austria, in Croazia, a Cipro, in Lettonia, in Irlanda, in Svezia, in Romania, in Slovacchia o in Ungheria. Per il resto, nulla. E per il resto noterete, invece, che le immagini delle leadership di destra, in giro per il mondo, Meloni a parte, sono associate, oggi, più a modelli perdenti che a modelli vincenti.
Pensate a Donald Trump, sconfitto per due volte di seguito da Joe Biden, presidenziali e midterm, e costretto oggi a fuggire goffamente dalle sue incredibili irresponsabilità fiscali. Pensate a Jair Bolsonaro, già idolo delle destre populiste di tutto il mondo, sconfitto clamorosamente da Lula, in Brasile, e costretto a rifugiarsi in Florida nel giorno dell’insediamento del suo rivale per non riconoscere la sconfitta. Pensate alla destra modello Le Pen, poi, eternamente sconfitta dal modello Macron. Pensate alla destra modello AfD, ripudiata ormai persino dalla destra modello Salvini. Pensate alla stessa destra inglese, poi, che pur essendo l’unica destra a governare un grande paese europeo non si può dire, visti i leader che ha bruciato negli ultimi mesi, che sia un modello di governabilità. E dunque avrete forse capito dove vogliamo arrivare: in giro per il mondo, oggi, l’unica destra di governo che può ambire a diventare qualcosa di simile a un modello vincente è quella italiana, quella guidata da Giorgia Meloni, e per capire quali sono le chiavi che potrebbero aprire alla Meloni Associati le porte del successo di governo occorre concentrarsi su tre punti in particolare.
Il primo punto coincide con una circostanza fortunata che si è presentata in questi mesi di fronte agli occhi di Giorgia Meloni: i modelli che la destra ha considerato come tali in questi anni si sono rivelati dei modelli di insuccesso e la loro traiettoria fallimentare suggerisce a Meloni di dover studiare un percorso alternativo. Alternativo al modello Trump. Alternativo al modello Le Pen. Alternativo al modello Truss. Alternativo al modello Bolsonaro. Alternativo al modello AfD. Sapere cosa non fare, per la destra italiana, può sembrare poco ma in realtà l’agenda dei no, delle cose da non fare, è oggi il suo vero vantaggio competitivo rispetto ad altre destre con ambizioni di governo. E se ci si riflette un istante, il non essere, per Meloni, è stato finora molto più qualificante del suo essere. Non essere come Bolsonaro, come Le Pen, come l’AfD, come Trump, oltre che ovviamente come Salvini, e non essere come le destre, modello Orbán, che in passato hanno fatto del putinismo un cavallo di Troia con cui provare a scardinare l’Europa. Non essere tutto questo, per Meloni, è un elemento di affidabilità, di rassicurazione, che non può che essere sommato poi a tutta un’altra serie di non essere che hanno permesso a Meloni di risultare meno indigesta del previsto. Non essere contro l’Europa, non essere contro la Commissione, non essere contro il Consiglio europeo, non essere appiattita sul vecchio mondo di Visegrád, non essere desiderosa di ingaggiare duelli con i signori dei conti di Bruxelles, non essere eccessivamente irresponsabile, non essere desiderosa di archiviare in toto la stagione di Draghi, non essere contro i diritti, non essere contro l’aborto, non essere anti sistema, non essere insomma troppo simile al modello di destra messo in campo negli ultimi anni dalla stessa Meloni.
Tutto questo, ovviamente, non significa, per Meloni, essere divenuta la copia sbiadita di tutto ciò che si è scelto di combattere nel passato, ma significa molto semplicemente aver deciso di mostrare il proprio profilo di destra su alcune battaglie identitarie non in grado di far deragliare la traiettoria dell’Italia: guerra contro il Pos, guerra contro i rave, guerra contro i migranti, guerra contro la Francia, guerra contro chi attacca la storia dell’Msi. Le battaglie di destra che contano, per la destra meloniana, sono quelle che hanno impatti relativi sui conti pubblici, eccezion fatta per le pensioni, e sono battaglie che mostrano un altro non essere importante del mondo meloniano: non essere intenzionati a rompere il sistema.
Norberto Dilmore, autorevole studioso che sotto uno pseudonimo offre da mesi pezzi pregiati al Mulino, tempo fa aveva pronosticato che per la destra italiana seguire l’approccio polacco avrebbe significato comprendere “dove si situano le red lines che porterebbero a una rottura con l’Unione (e con l’asse franco-tedesco)” e avrebbe permesso alla destra di “mantenersi in prossimità di esse senza però superarle (se non per breve tempo)”. Grazie alla cultura del compromesso a cui Meloni è costretta un po’ per come è fatta la sua maggioranza (in una coalizione si discute e si media) e un po’ per come è fatta la sua storia (quando hai passato la tua vita all’interno dei partiti puoi essere anti sistema a parole ma non potrai mai esserlo nei fatti), la forza della destra italiana oggi è quella di avere il senso del limite, di conoscere il valore delle parole scritte, di riconoscere l’inviolabilità dei trattati, di sapere quando non si può rompere e di essere cosciente che, per un paese indebitato come l’Italia che si ritrova oggi a gestire un terzo dei fondi europei stanziati nel Recovery plan, mostrare inaffidabilità, sui grandi temi, significa costruirsi velocemente una strada per l’inferno.
I difetti del governo Meloni sono tanti, li abbiamo descritti ampiamente, ma il suo punto di forza, rispetto alle altre destre che hanno provato a governare in questi anni, è quello di sapere dove si trovano le red lines. E in attesa di capire se la destra italiana riuscirà a difendere la libertà non solo nell’accezione di difendere la libertà di essere estremisti, l’idea che al governo vi sia un capo dell’esecutivo potenzialmente pericoloso ma con il senso del limite spiega perché l’Italia politica di oggi viene osservata più con curiosità che con paura.