Meloni medita un'intesa con Renzi su Rai e Csm. Ma Berlusconi mugugna
Trattative in stallo sulla Vigilanza, manovre in corso sui candidati laici al Consiglio superiore della magistratura. La premier cerca sponde nel terzo polo per sterilizzare le tensioni con FI e Lega, ma il suo è un sentiero stretto. E ad Arcore già sbuffano per le nomine di Ruffini e Dal Verme
Si fida il giusto, ci si affida quasi niente. Forse è per questo che anche la partita delle nomine, finché può, Giorgia Meloni la gestisce in casa sua, coi pochi privilegiati ammessi nel sancta sanctorum di Palazzo Chigi. E si capisce, allora, la rabbia di leghisti e berlusconiani per essere tenuti all’oscuro di quasi tutto. E si spiega così lo stallo sulle trattative parlamentari più delicate. La Vigilanza Rai è in ghiaccio. Sull’Antimafia tutto fermo Per il Csm, dopo molti tentennamenti, qualcosa si muove. Et pour cause, visto che il Colle iniziava a borbottare.
Non che, anche qui, Meloni non lo abbia valutato, un ulteriore rinvio. Ma sarebbe stato il terzo, e gli auspici del Quirinale – quelli per cui bisognerebbe davvero avviare una fase (ri)costituente del supremo organo della magistratura – sarebbero stati smentiti da un’ennesima falsa partenza. Che, tuttavia, non è ancora scongiurata. Ieri, infatti, la conferenza dei capigruppo ha stabilito che sì, martedì prossimo si avvierà la procedura di voto, in seduta congiunta, per la scelta dei dieci membri laici del Csm, ma lasciandosi comunque un certo margine di manovra: le votazioni infatti si ripeteranno ogni martedì pomeriggio nel caso di mancato quorum.
E’ il segnale di come la trattativa si annuncia complessa (e non solo perché la scarsità di candidature femminile pervenute – sono il 25 per cento, al momento, e secondo la nuova legge devono essere il 40 – potrebbe costringere il Parlamento a riaprire i termini). Meloni non pare disdegnare, al momento, l’idea di favorire la promozione a vicepresidente a un esponente gradito a FI, così da risanare il dissidio col Cav. in materia di giustizia. Preferirebbe, tuttavia, evitare esponenti di partito. E tuttavia, per quello che valgono i nomi a una settimana dall’inizio del rodeo, va detto che quello più quotato, al momento, resta quello di Pierantonio Zanettin. Uno che il Csm lo conosce bene, per esserci già stato, e forse anche per questo, nei conciliaboli della vigilia, di ritorno dalla sua vacanza in Oman, ostenta disinteresse: “Troppe insidie, troppe rogne, non ne ho alcun voglia”, ha detto il senatore azzurro ai suoi colleghi, per poi aggiungere: “Ma se Berlusconi o la Meloni me lo chiedono…”. La frase pare sia rimasta così, a mezz’aria sui calcoli da imbastire e i pettegolezzi che ne conseguono. Perché, se è vero che con FI non vuole nuove fratture, la premier ritiene anche che la giustizia sia il terreno propizio per riallacciare rapporti di cordiale ostilità col Terzo polo. Specie con Matteo Renzi, che non a caso gestisce in prima persona il dossier. E allora è scontato, sembra, che la ripartizione dei membri laici contempli un rapporto di sette a tre. Sette per la maggioranza (3 per FdI, 2 per FI e Lega) e tre per l’opposizione (uno a testa per Iv, Pd e M5s). Ma l’intransigenza grillina su nomi particolarmente orientati al forcaiolismo potrebbe anche generare un’ulteriore saldatura, in seno al Csm, tra il centrodestra e il mondo renziano.
E non è una dinamica molto diversa da quella che si registra intorno alla Rai. E se le lentezze sulla commissione Antimafia rientrano ancora nell’ordinario, i ritardi sulla Vigilanza sono ormai clamorosi: per eleggere Roberto Fico, nel 2013, ci vollero 38 giorni a partire dall’insediamento del governo; 43 furono necessari, cinque anni dopo, per Alberto Brachini. Ora siamo alla soglia degli 80, e di soluzioni imminenti non se ne vedono. Che toccasse al M5s, quella casella, pareva così pacifico che Stefano Patuanelli aveva già ricevuto ambasciate e imbeccate da parte di esponenti di governo. “Avrei piacere, ma rispetto gli ordini di scuderia”, s’è schermito lui, dissimulando il fastidio che pure deve provare per la fermezza con cui Giuseppe Conte continua a osteggiarlo in questa partita. “Prendere la Vigilanza ha senso solo se possiamo sfruttarla politicamente”, ha spiegato il fu avvocato del popolo. Intendendo, cioè, che serve un profilo barricadero, non istituzionale: uno come Riccardo Ricciardi, ad esempio, già pronto a incatenarsi al cavallo di Viale Mazzini. Scenario che, per reazione, spinge allora Palazzo Chigi a valutare, anche qui, un gioco di sponda col Terzo polo, magari favorendo l’elezione di Maria Elena Boschi.
Un modo, da parte di Meloni, per costruirsi, se non una truppa di riserva che scoraggi eventuali sgarbi parlamentari di Lega e FI, quantomeno una camera di compensazione minima in caso di turbolenze.
Ma è una corsa sul filo, per la premier. Alla quale è bastato, dopo annunci bellicosi di paventato spoils system, confermare all’Agenzia delle entrate quell’Ernesto Ruffini in odore di renzismo, per attirarsi le ire degli alleati azzurri. Figurarsi, allora, il rinnovo del mandato ad Alessandro Dal Verme per l’Agenzia del demanio. “Ma come? Si strepita tanto contro il deep state fedele al Pd, e poi ci teniamo la cognata di Gentiloni?”, sbuffa un uomo di governo di FI, che prosegue: “Se c’è la volontà di allargare la maggioranza, magari in vista della riforme, che almeno Meloni ce lo dica”. Il tutto mentre Renzi, forse proprio per mostrare alla premier la convenienza di una eventuale entente cordiale, continua a suonare, a dispetto delle previsioni, la campana dell’opposizione dura e pura. Al punto che perfino dentro la truppa del Terzo polo sono proprio quelli di Iv a raccomandare ai colleghi di Azione di alzare i toni, di non ammorbidirsi nei confronti del governo. Come, insomma, a voler minacciare sfracelli, prima di sedersi al tavolo delle trattative?