Foto di Ettore Ferrari, via Ansa 

Lo stato che sostiene il privato

Ilva, Ita, Tim, Priolo: una Meloni mercatista. Wow!

Claudio Cerasa

Su alcune partite cruciali, la politica industriale del governo archivia la stagione sovranista e si apre al mercato più di quanto fatto da Draghi & co. Storia di quattro splendide incoerenze

Tra le immagini che ci possono aiutare a capire cosa vuol dire avere un governo investito dalla realtà ce n’è una sorprendente che riguarda un ambito all’interno del quale la maggioranza guidata da Giorgia Meloni sta offrendo alcune sorprese incredibilmente positive. L’ambito in questione riguarda un settore molto delicato, incandescente, che ha a che fare con alcune partite semplicemente cruciali per il futuro industriale italiano.

 

Quattro in particolare: Ilva, Tim, Ita, Priolo. La sorpresa dei primi mesi del governo è che nonostante la prosopopea esplicitamente nazionalista, nonostante l’impianto apertamente sovranista, nonostante l’approccio dichiaratamente anti mercatista, in tutte e quattro le partite l’esecutivo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia ha finora avuto un approccio pragmatico, non statalista, aperto al mercato e splendidamente incoerente con le sue stesse preoccupanti premesse.

 

Prendete il caso Ilva, per esempio, dove Meloni, che in passato aveva detto di non essere contraria all’ipotesi della nazionalizzazione (novembre 2019), ha messo in campo una strategia indirizzata a raggiungere l’obiettivo opposto, ovverosia offrire all’investitore privato, ArcelorMittal, tutte le condizioni per aumentare la produzione: lo scudo penale, la continuità aziendale in caso di sequestro, la conferma delle autorizzazioni ambientali esistenti e l’intervento dello stato in caso di insolvenza. Lo stato c’è, ma per sostenere il privato, non per sostituirlo.

 

Un approccio che spiazza chi aveva creduto alle promesse ultranazionaliste di Meloni e che permette di guardare con un occhio diverso anche alle altre tre partite citate. Prendete Tim, per esempio. In un primo momento, la rete unica, in salsa meloniana, aveva assunto delle sembianze mostruose, sintetizzate su questo giornale dall’attuale sottosegretario all’Innovazione, Alessio Butti. Sosteneva Butti che compito dello stato dovesse essere quello di impossessarsi della rete unica, mettendo i soldi di Cdp al servizio di Tim, di fatto nazionalizzando Tim (debito lordo di Tim: 23 miliardi di euro, auguri e figli maschi). 

 

Oggi l’approccio del governo è del tutto diverso e nella rete unica l’indicazione data ai così detti stakeholder dal ministro dello Sviluppo economico, Adolfo Urso, è grosso modo questa: a Tim verrà fatta un’offerta che non potrà rifiutare per l’acquisizione della sua rete, la nuova società che gestirà la rete di Tim avrà come socio di maggioranza Cdp, che a quel punto potrà uscire da Tim, nella nuova società vi saranno anche investitori privati, come Vivendi, come Kkr e come il fondo Macquarie, e per evitare di incorrere in una qualche infrazione europea il governo, per almeno due anni, accetterà di avere un’altra società specializzata in reti in concorrenza con la nuova società, e a differenza di quanto previsto dal piano del governo Draghi per almeno due anni Open Fiber, partecipata al 60 per cento da Cdp e al 40 per cento da Macquarie, potrebbe continuare a fare concorrenza alla società nata dalla cessione della rete Tim.

 

Il piano del governo, presentato in questi giorni agli investitori, piuttosto che essere visto come un esproprio di stato è stato salutato con imprevista soddisfazione dagli azionisti di Tim (Vivendi, società francese, azionista principale di Tim, ha ringraziato il governo Meloni, che sulla carta esprime il massimo dell’antipatia nei confronti della Francia, per le condizioni create per concludere l’affare sulla rete e ha addirittura annunciato di essere pronta a fare nuovi investimenti in Italia) e ha permesso a Tim di ottenere un risultato ormai raro. Ovverosia: crescere in Borsa (più 18 per cento nell’ultimo mese). Che sia la soluzione migliore sulla rete unica è tutto da vedere, ma intanto i numeri del mercato sono dalla parte del governo e non è poco.

 

Stessa storia, anche se su una scala diversa, per Priolo, la raffineria italiana che fa capo alla società russa Lukoil che ha rischiato di chiudere a seguito dell’embargo scattato lo scorso 5 dicembre. Il governo aveva minacciato l’esproprio, oltre che la nazionalizzazione della raffineria, e invece alla fine l’esecutivo è riuscito a fare quello che non era riuscito neppure al governo Draghi: trovare acquirenti privati capaci di evitare la chiusura dell’impianto (salvo sorprese, la raffineria andrà alla G.o.i. Energy, azienda che fa parte del fondo di private equity Argus, attivo in campo energetico e con sede a Cipro).

 

Tre casi in cui lo stato ha dimostrato di voler esserci per sostenere il privato, non per sostituirlo, e tre casi a cui non può non essere aggiunta la vicenda di Ita. La cordata premiata dal Mef ai tempi del governo Draghi, cordata guidata da Certares e Air France, avrebbe consentito allo stato di mantenere una partecipazione vicina al 45 per cento. Mentre l’opzione Lufthansa, che era quella preferita da Draghi anche se non dal suo Mef e che l’opzione su cui ora ha scelto di puntare il nuovo Mef guidato da Giancarlo Giorgetti, avrebbe permesso allo stato di avere una percentuale, dentro la nuova società, inferiore al 30 per cento.

 

E anche qui la sorpresa è notevole: un governo che si è presentato agli elettori come un argine al mercato selvaggio si propone ora di fronte agli investitori come un insospettabile amico del mercato, compreso quello selvaggio (il Dpcm di dicembre, rispetto al passato, impegna lo stato a non vendere direttamente la maggioranza ma solo la minoranza nella prima fase, prevedendo l'afflusso dei soldi ricavati dalla vendita direttamente a Ita come aumento di capitale per aumentare cassa e liquidità: Lufthansa dovrebbe offrire tra tra i 250 e 350 milioni per il 35-40 per cento di Ita e avrebbe un’opzione nel giro di due anni per avere la maggioranza assoluta della società aerea).

 

E un governo travolto dalla realtà offre una doppia immagine di sé. Una prima immagine è quella del sarcasmo, che spinge a ricordare tutte le volte che un governo populista è stato costretto a smentire se stesso per non essere incompatibile con la realtà. La seconda immagine però è quella del sollievo, che spinge a riconoscere che un governo a un passo dal risolvere alcune incancrenite partite industriali italiane dando più spazio al mercato e meno spazio allo stato è un governo che, viste le promesse, può far sorridere, ma merita anche di essere preso sul serio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.