un'analisi
La dissoluzione del Ppi di don Luigi Sturzo nel Pd
Moralismo e complesso d’inferiorità. Così l’idea di ripartire dalla linea del fondatore del Partito popolare italiano è sfociata nel socialismo radicale
“Abbiamo deciso di non morire democristiani, ma non abbiamo deciso di morire socialisti”. Con queste parole, seguite da un’ovazione, Gerardo Bianco, nel gennaio 1997, chiuse il congresso del Ppi e la sua esperienza di segretario. Gli successe Marini che sconfisse il prodiano Castagnetti.
Quello di Bianco volle essere un ammonimento a non dissolvere la cultura e l’esperienza democristiana in quella alternativa della sinistra. Il nuovo nome del partito voleva essere un ritorno a Sturzo, che di quella alternatività era stato combattivo sostenitore, oltre che alfiere di una laicità più marcata di quella che il tempo storico aveva consentito alla Dc. L’alternatività della Dc alla sinistra era punto fermo anche nel pensiero di Moro (“La nostra democrazia è zoppa fino a quando la Dc sarà inchiodata al suo ruolo di unico partito di governo… dobbiamo operare in modo che ci siano alternative reali di governo alla Dc”, intervista pubblicata postuma, Repubblica 14 ottobre 1978). E questo era il sentire unanime nella Dc pur divisa in correnti, prima del terremoto prodotto dalla caduta del muro di Berlino e, a livello interno, da Tangentopoli.
In quel fatidico 1989, poco prima della caduta del muro di Berlino, due influenti intellettuali della sinistra interna potevano perciò ribadirlo. Andreatta: “Se il sistema politico portasse alla democrazia dell’alternanza, i cattolici non avrebbero altro modo per riconoscere e per dar forza alla loro identità che ritrovarsi nel limpido messaggio di Sturzo che in questi quaranta anni ci è apparso più come pietra di inciampo che come suggeritore di propositi e di politica” (Luigi Sturzo e la democrazia europea, a cura di G. De Rosa, p. 306). E Pietro Scoppola: “In un sistema di alternanza la Dc è chiamata dalla sua storia e dalla sua naturale base elettorale ad essere partito alternativo allo schieramento di sinistra” ("La Dc e l’alternanza", Repubblica 22 settembre 1989).
Paradossalmente, in quegli anni Novanta, anche la sinistra postcomunista, smarrita e confusa, prendeva le distanze dal socialismo. Ha scritto Macaluso, esponente della sconfitta ala migliorista: “Occhetto con la svolta non volle andare nella direzione del socialismo, perché avrebbe dovuto fare i conti col socialismo italiano”. Dal rifiuto di una prospettiva socialdemocratica nacque un’eterogenea alleanza di “Progressisti”, che trovò il collante nella “questione morale” rinvigorita dalla tempesta di Tangentopoli.
Rinvigorita perché da oltre un decennio in essa consisteva la linea politica del Pci, da quando Berlinguer, dopo la morte di Moro, vi si era rifugiato, sbandierando la “diversità” che gli evitava di scegliere tra l’organica appartenenza al comunismo sovietico e la piena accettazione del sistema delle democrazie occidentali (posizione che Nilde Iotti commentò: “La nostra linea viene interpretata così nel partito: il Pci è sul Monte Sinai e guarda la sconcezza degli altri partiti nella valle”).
Tornando ai nostri anni Novanta, la Dc scossa da Tangentopoli affidò all’immagine ieratica di Martinazzoli le speranze di rinnovata credibilità. Stretto tra un’incalzante posizione nuovista-moralista, che pretendeva la tabula rasa della vecchia dirigenza, e il nuovo sistema elettorale maggioritario, Martinazzoli, ostentando una malinconica vocazione penitenziale, decise di non decidere, con la conseguenza di produrre due scissioni: a sinistra dei Cristiano sociali e a destra del Centro cristiano democratico.
Sul suo indecisionismo calò questo sferzante giudizio di Fanfani: “Se li è fatti dare i pieni poteri, ma ha scelto di non scegliere”. Nelle elezioni del ‘94 Martinazzoli non volle nemmeno candidarsi e il Ppi le affrontò in tono dimesso, lasciando campo libero allo scontro tra la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto e la nuova armata di Berlusconi che, fattasi alfiere di una posizione nettamente alternativa alla sinistra, raccogliendo la gran parte del voto già democristiano, inflisse una sonora sconfitta ai Progressisti.
Cominciò allora per il Ppi la confusa fase che lo avrebbe portato a dissolversi a sinistra. In opposizione al berlusconismo nacque l’Ulivo e il Ppi si avvolse nel dilemma: Ulivo come alleanza o come partito?
Prodi, fattosi campione delle istanze nuoviste-moraliste, incoronato leader dell’Ulivo, vinse le elezioni del ’96. In un discorso in Senato (17 luglio 98), evocando legalità e questione morale, dichiarò espressamente: “La maggioranza elettorale e parlamentare che ha espresso questo governo ha in questi valori uno dei suoi principali collanti”. Intanto dai suoi più stretti collaboratori non si perdeva occasione per affermare la prospettiva dell’Ulivo-partito, nel dissenso ufficiale di Pds e Ppi (“No al partito-Ulivo: è stato questo il messaggio inviato a Prodi da D’Alema e Martinazzoli, durante il faccia a faccia… “, Il Giorno, 19 settembre 1996). Nel ’98 l’imprevista caduta del governo Prodi dette respiro alle componenti antiuliviste e consentì, sotto la regia di Cossiga, la nascita del governo D’Alema.
Dopo appena tre mesi, però, Cossiga lanciò l’allarme: “Si è ricostituito l’Ulivo, si ritorna al centro sinistra pasticciato. Marini si è arreso alla sua minoranza. Ripenso a ciò che mi ha sempre detto dell’Ulivo. Marini deve essere un buon conoscitore di quel libriccino di Torquato Accetto, L’arte della dissimulazione onesta. Solo che qui la dissimulazione forse non è onesta” (Repubblica, 20 gennaio 1999). Reagendo alla defenestrazione, Prodi fondò “I democratici”, con il simbolo dell’Asinello (27 febbraio 1999). A dare vigore alla sua strategia fu il successo nelle elezioni europee del ’99: il Ppi si attestò al 4,2 per cento, i prodiani al 7,7 per cento.
La debacle del Ppi portò alla messa in stato d’accusa di Marini, attaccato da Martinazzoli e Castagnetti, ma paradossalmente anche dall’ala antiprodiana. Duro Andreatta, a cui rispose aspramente Franceschini, vice di Marini, al tempo fiero avversario della strategia prodiana. In un’intervista aperta da un titolo a quattro colonne ("Andreatta vuole svenderci a Prodi", Corriere della sera 24 maggio 1999) volle richiamarlo all’ordine: “Sta nel gruppo popolare di Montecitorio e non è ancora passato a quello dei Democratici”.
Nel Congresso che si celebrò in autunno si realizzò l’imprevisto: Marini, attaccato su tutti i fronti, si alleò con Castagnetti, suo storico avversario, consentendogli di conquistare la segreteria. Forte del risultato delle elezioni europee, Prodi, alla fine del ’99, mise in crisi il governo D’Alema. Nacque così il D’Alema II, ormai “ulivista”, come Cossiga aveva previsto. E prese avvio la costituente della Margherita, presentata in casa Ppi come necessario, “definitivo” rifugio dei moderati. Ma della Margherita, socio di maggioranza era l’Asinello di Prodi che invece pubblicamente dichiarava la nuova formazione “tappa” verso l’Ulivo-partito.
Nei mesi successivi nel Ppi proseguì la commedia degli equivoci. Con patetico autoinganno si continuò a negare la prospettiva ulivista. Marini, ormai alleato di Castagnetti: “Zecchino si spaventa del fatto che Castagnetti voglia condurci nel partito unico dell’Ulivo. È impaurito da un fantasma, da una cosa che non esiste” (Repubblica, 28 agosto 2000). Netto anche il dissenso di De Mita, ormai sostenitore di Castagnetti: “Un errore il partito unico ulivista. Parisi teorico del nulla” (Corriere della sera, 4 ottobre 2000). Pochi giorni dopo, il 6 novembre, il Consiglio nazionale del Ppi a maggioranza decise la confluenza elettorale nella Margherita, respingendo la mozione che proponeva il suo ancoraggio al Partito popolare europeo.
Anche Castagnetti negava l’approdo finale del partito unico (il 3 gennaio successivo mi scrisse: “Conosco i tuoi timori sullo sbocco cui potrebbe portare la strada intrapresa, ma tu conosci la mia buona fede e il mio impegno perché tali timori siano smentiti”). La dirittura morale di Castagnetti non consente di dubitare della sua buona fede, come di quella di tutti coloro che si pronunziavano contro la fusione. Purtroppo finirono per essere trascinati un po’ dagli eventi e un po’ dalle più determinate volontà dei “prigionieri del complesso d’inferiorità” verso la sinistra, denunziato con forza da Sturzo poco prima di morire.
Seguirono le tappe obbligate di un percorso ormai segnato. L’8 marzo 2002 nacque la Margherita-partito (Martinazzoli: “Mentre i Popolari di Castagnetti affrontano un nuovo viaggio io resto semplicemente a terra, la mia posizione è estranea a questo processo. Non mi convince questa scelta”). Cinque anni dopo dalla Margherita e dai Ds nacque il Pd (14 ottobre 2007). Ultima tappa: 1° marzo 2014 il Pd di Renzi approda nella famiglia socialista europea. Si realizza così la metamorfosi in socialisti dei democristiani passati nel Pd, con buona pace del ricordato ammonimento di Bianco.
Oggi, in questo partito costruito in laboratorio, che in nome del multiculturalismo ha preteso di inglobare culture, storie e valori diversi e lontani, si tenta di esorcizzare la crisi evocando l’eterno “nuovo” da costruire. Sorte non felice tocca ai militanti postdemocristiani. Su quelli di loro che guidano il partito, Parisi, il teorico dell’Ulivo, ha lanciato l’accusa di essersi spinti tanto a sinistra da riportare l’orologio della storia nientemeno che alla scissione di Livorno del 1921. Su tutti, con la scoperta del malaffare nella sinistra europea, è piovuta finanche l’accusa di aver essi introdotto i germi della corruzione nell’incontaminata realtà della sinistra.
Castagnetti, assistendo turbato dall’esterno, in una recente intervista, rivendica, quale cofondatore del Pd, l’assoluta parità di tutte le componenti, ma poi non si nasconde l’esistenza di una volontà “di fare del Pd un partito della sinistra classica”, perché “si pensa di essere più radicali”, aggiungendo l’interrogativo “che cosa vuol dire più radicali?” Gli si può rispondere: allinearsi al nuovo modo di essere della sinistra nel mondo occidentale. Crollata l’utopia comunista, secondo la più volte richiamata profezia di Del Noce, i partiti della sinistra, di qua e di là dall’Oceano, si vanno tutti connotando come partiti radicali di massa.
“Che cosa vuol dire più radicali” nel Pd? Vuol dire ciò che si è puntualmente già realizzato: riconoscere più spazio alle Cirinnà e agli Zan e respingere l’inusuale appello formale lanciato dal Vaticano di un papa “progressista”. È possibile che Castagnetti non si avveda di tutto ciò? È possibile che non si avveda che non ha senso arrovellarsi nell’interrogativo: “I cattolici democratici, ancora utili all’Italia?”, tra l’altro, perseverando nell’uso della divisiva espressione “cattolici democratici”, volutamente ignorando che, già un secolo fa, Sturzo rifuggiva dall’uso dell’aggettivo “cattolico”, per inneggiare laicamente al “patrimonio delle genti cristiane”, “ai saldi principi del Cristianesimo” e alla sua “missione civilizzatrice”? Ritiene Castagnetti che basti sventolare l’etichetta “cattolici democratici” per garantire la pari dignità all’interno del Pd, chiudendo gli occhi, in nome del multiculturalismo, sulla abissale distanza su concezioni e questioni fondamentali?
Nel passaggio dalla Dc al Ppi, per definire quali esse fossero, si levarono voci autorevoli, non sospettabili di clerico-conservatorismo. Padre Sorge: “È giunto il momento di passare dalla Dc di De Gasperi al Partito popolare di Sturzo. Su quali altre basi si potrà fondare la vita democratica del paese, se non sui valori che costituiscono il patrimonio della nostra gente: la centralità e la dignità trascendente della persona, la sacralità della vita umana, la stabilità della famiglia fondata sul matrimonio?” E Martinazzoli nell’Assemblea fondativa del nuovo partito: “Si va al governo o all’opposizione a seconda che si trovino le alleanze, le coesioni su un programma vicino a quello che noi proponiamo. Dobbiamo sapere che i grandi temi della famiglia, del pluralismo scolastico e tutto quanto ci riguarda più da vicino sono anche temi che dividono, ma sono temi appunto che dobbiamo assumere finalmente in termini dirimenti. Non pretendiamo di avere insieme la bellezza dell’ideale e la comodità del potere”.
Castagnetti, che ha dissolto il Ppi nel Pd, non vede che in questo partito i menzionati “grandi temi”, sono sì assunti “in termini dirimenti”, ma in opposizione rispetto alla cultura popolare e sturziana? E, con l’onestà intellettuale che gli è propria, non ritiene di trarre da ciò le debite conseguenze?