Giorgia Meloni al Consiglio europeo (Ansa)

Effetti del protezionismo americano

Meloni tra Biden e la fuffa: appunti per un'agenda di governo

Claudio Cerasa

Sull'inflation reduction act americano, la premier non è riuscita finora ad articolare un pensiero diverso dalla coniugazione del verbo “preoccupare”. Quanto ci metterà a capire che non riguarda solo l'Europa ma la competitività dei singoli paesi?

Spinto dall’esigenza umanamente comprensibile di riempire la propria agenda quotidiana di non temi, di argomenti fuffa, di polemiche inventate, e spinto dunque dal dovere per così dire primario di dedicare la propria attenzione ad argomenti rilevanti come il futuro dei rave, il futuro del Pos, il futuro del Mes, il futuro dello Spid, il futuro dei No vax, il futuro dei contanti, il governo italiano, negli ultimi mesi, ha scelto in modo diversamente lungimirante di dedicare a un argomento cruciale per il destino del nostro paese un livello di attenzione simile a quello che si può facilmente riscontrare in un bambino dopo un paio d’ore passate con un joystick in mano per cercare la giusta skin per affrontare l’ultimo Pass battaglia di “Fortnite”. L’argomento cruciale a cui facciamo riferimento coincide con un acronimo di tre lettere: Ira. Ovverosia: l’inflation reduction act, il piano anti inflazione, e ultra protezionista, varato ad agosto dall’Amministrazione Biden per rafforzare la sicurezza economica ed energetica degli Stati Uniti, per convincere le imprese internazionali a investire negli Stati Uniti a colpi di sussidi senza precedenti e per spingere le famiglie americane a comprare americano. Totale del pacchetto: 370 miliardi di dollari.

 

Di fronte a questa infelice rivoluzione copernicana portata avanti dall’Amministrazione Biden, Giorgia Meloni, in tre mesi di governo, non è riuscita ad articolare, né lei né il suo esecutivo, un pensiero diverso dalla coniugazione del verbo “preoccupare”. Il risultato, come si ricava anche dalle notizie che arrivano in questi giorni dal World Economic Forum di Davos, è facilmente ricavabile se si osserva la strategia scelta in Europa per rispondere alla frustata americana alla propria economia: una totale assenza della posizione italiana sui famosi tavoli decisionali europei proprio nei giorni in cui la Commissione europea e l’Unione europea stanno cercando un modo per dotare l’Ue di una qualche arma difensiva capace di tamponare l’inaspettato protezionismo bideniano (il rischio che vi siano imprese desiderose di fuggire negli Stati Uniti per spostare investimenti e produzione dove ci sono più incentivi, più sussidi e un costo dell’energia più basso potrebbe presto passare dallo stato di incubo a quello di realtà). E proprio nei giorni in cui, anche in virtù delle mosse americane, alcuni giganti industriali, come Intel, sono a un passo dal rimangiarsi investimenti miliardari nel nostro paese.

 

Per quanto, in Europa, vi possano essere alcune scelte utili in agenda, come quelle che riguardano la creazione di un fondo comune necessario per evitare risposte solo nazionali a problemi di carattere globale, e per quanto vi possano essere alcune decisioni che potrebbero incontrare il favore italiano, come l’avere maggiore flessibilità sulle risorse del Pnrr, del RePowerEu, del fondo Sure, l’assenza di una zampata italiana nel dibattito europeo la si percepisce con chiarezza esaminando quella che sembra essere oggi l’unica strategia sul breve termine che l’Europa potrebbe mettere in campo: un allentamento delle regole europee sugli aiuti di stato, che favorendo i paesi meno indebitati andrebbe inevitabilmente a non risolvere i problemi di competitività di fronte ai quali potrebbe presto trovarsi l’Italia dinanzi a uno scenario non così remoto come la deviazione di investimenti dall’Europa agli Stati Uniti.

 

Infatti, su 672 miliardi di euro approvati dalla Commissione dopo aver allentato le regole a causa della guerra, il 53,02 è stato notificato alla Germania, il 24,06 alla Francia, il 7,65 all’Italia e rispettivamente si tratta del 9,24 per cento del pil, del 6,13 per cento del pil e del 2,69 per cento del pil. Dunque, che fare? E, soprattutto, quanto ci metterà la politica, e il nostro governo, a comprendere che la sfida lanciata dagli Stati Uniti non riguarda solo la capacità dell’Europa di muoversi da gigante, e non da nano, ma riguarda prima di tutto la capacità dei singoli paesi di diventare più competitivi senza dover fare ulteriori passi indietro sul terreno della solidarietà (la Germania che coltiva l’illusione di poter rispondere da sola ha un economia che è un sesto di quella americana e un quarto di quella cinese)? Più integrazione europea, dunque, ma anche più soluzioni per rendere il nostro paese più concorrenziale, più accogliente, più competitivo, più efficiente.

 

E per seguire questa strada, il governo Meloni, se mai avrà la forza di mettere da parte l’agenda della fuffa, dovrà iniziare a chiedersi non solo cosa l’Europa può fare per noi, domanda che su questo fronte la premier ha scelto finora di non porsi, ma anche cosa l’Italia potrebbe e dovrebbe iniziare a fare per aiutare se stessa. Dovrebbe iniziare a capire, per esempio, che impegnare le proprie energie sull’attuazione e la rivendicazione del Pnrr è infinitamente più importante che dedicare energie alla rinegoziazione del Pnrr con Bruxelles (consigli non richiesti a Meloni: guardi al formidabile roadshow che sta facendo in Portogallo il premier António Costa tra i progetti e i cantieri aperti grazie ai fondi europei). Dovrebbe iniziare a capire, per esempio, che l’Italia, piuttosto che pensare di risolvere i suoi problemi beneficiando di qualche aiuto di stato in più, dovrebbe candidarsi in Europa a trovare una sua specificità, ad avere un ruolo trainante in alcuni progetti europei di eccellenza globale, come può essere la sfida della produzione di semiconduttori, come può essere la sfida della produzione di idrogeno verde.

 

Abbiamo le aziende, abbiamo la forza, abbiamo il know how, abbiamo la competenza, ci mancano le scelte, ci manca la strategia, ci manca l’attenzione, ci manca la politica, ci manca la consapevolezza che un conservatorismo con la testa sulle spalle, per dire, non è quello che si limita a denunciare i possibili guai generati dall’innovazione, e da una transizione energetica incapace di salvaguardare il nostro benessere e i nostri asset industriali, e non è quello che considera il progresso un guaio per le corporazioni. Ma è quello che, al contrario, trasforma l’innovazione in un motore della crescita, di merito e di opportunità. Ed è quello, tanto per capirci, che trasforma il più grande progetto di efficientamento del paese, ovvero il Pnrr, in un magnete utile per attrarre investitori e che considera la sfida dell’integrazione europea, con i fatti non con le chiacchiere, come un’occasione per dare all’Italia la possibilità di potersi difendere con le spalle da gigante di fronte alle sfide anche aggressive dei giganti del mondo. Una volta che Meloni sceglierà di mettere da parte l’agenda della fuffa capirà che di fronte a sé c’è una dura sfida in Europa chiamata realtà. Cercasi risposte urgenti, prima che sia troppo tardi.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.