l'editoriale
Il problema delle intercettazioni è la loro gestione mediatico-giudiziaria
Nei sistemi con una cultura giurisdizionale solida, si intercetta ma non si pubblica, se non in casi rarissimi. L’accusa è una cosa seria e non un fuoco meschino di sospetto. Il ministro Nordio concentri su questo il suo raggio d’azione
Vero che le intercettazioni telefoniche e ambientali sono lo strumento perfetto per le indagini di qualunque tipo; vero anche il collegamento tra gli ascolti legali su materie e in ambiti diversi dalla diretta area mafiosa, che però portano a risultati nello smantellamento della criminalità organizzata. Sminuire con le chiacchiere il fenomeno non è garantismo giuridico, è impresa ciarliera e dissennata. Ma accettare la gestione mediatico-giudiziaria delle trascrizioni di conversazioni e scambi, così come si presenta da parecchi anni e così come tende a evolvere con tecniche sempre più sofisticate di ascolto, è corruzione della natura del processo penale, indagini comprese come suo fondamento originario, è la fine di ogni tipo di garanzia per il cittadino e l’inizio di un mondo fosco in cui il sospetto, come diceva un celebre gesuita di Palermo, è l’anticamera della verità e non, come dovrebbe essere, di un accertamento fondato su prove testimoniali e documentali da portare e verificare nel dibattimento.
Direi che Carlo Nordio, dal momento in cui è passato dalla funzione di commentatore, nella veste di magistrato in pensione, alla funzione di ministro della Giustizia, avrebbe dovuto concentrare su questo il suo raggio d’azione, limitando chiacchiere ripetitive d’opinione e esternazioni a raffica. Non è successo, e ne scaturiscono problemi per tutti, dopo che l’inchiesta di Bruxelles ha colpito fenomeni illegali di lobbismo cash con gli ascolti autorizzati, e sempre gli ascolti hanno condotto alla cattura di un boss latitante da trent’anni. Certe volte si ha la sensazione che i garantisti, quorum ego, considerino la materia della loro riflessione e iniziativa come una battaglia persa in partenza, lavorando attivamente per i loro cocciuti avversari giustizialisti; e se lo scontro è tra i poteri di intercettazione della polizia giudiziaria e dei pm, con il corollario enfatico della libertà di stampa e informazione, e le garanzie come generica tutela della privacy, bè, non c’è partita, anche un bambino lo capisce di primo acchito.
Nei sistemi con una cultura giurisdizionale solida, e in cui vige il processo accusatorio, e non accusatorio all’italiana, si intercetta ma non si pubblica, se non in casi rarissimi e con una tutela strenua della privacy, perché la libertà di informazione è parte di una trama di diritti riconosciuti all’individuo e non una mistificazione pomposa, e il risultato degli ascolti è sottoposto, per diventare prova processuale seria, a una teoria di condizioni che subordinano la tecnologia alla procedura di accertamento, alla prova come fatto e non come ascolto a raggiera, alla capacità di stabilire una verità giuridicamente fondata e non di squadernarla, la Verità, con la tecnica gesuitica inquisitoriale della sua anticamera di sospetti. Non è poi così complicato.
Il fatto dirimente è la cultura della giurisdizione, l’idea che l’accusa è una cosa seria e non un fuoco meschino di sospetto, un grossolano godimento della speranza di sputtanare gli altri, un modo di risolvere controversie politiche e di immagine, uno strumento di lotta politica. Decisivo è il percepire i magistrati e la polizia giudiziaria come organi che lavorano su ipotesi da verificare al di là di ogni ragionevole dubbio, secondo il modulo e il costume del giusto processo, e giudici separati in carriera, addirittura elettivi nel sistema americano, che procedono e mandano solo e soltanto nei casi in cui possono superare la prova del dubbio. Il ministro della Giustizia di un governo che abbia vero interesse a riformare la materia dovrebbe concentrarsi su questo, per combinare efficacia delle indagini e massimo garantismo giuridico. E chi si vuole, si dice, affetta o è convintamente dalla parte delle garanzie per il cittadino, compresa la garanzia di una accettabile incisività delle indagini, del dibattimento e del giudizio finale, non dovrebbe girare in tondo, come avviene da noi da anni, alle intercettazioni, dovrebbe riformare la materia su cui le tecnologie di ascolto nei casi di ipotesi criminale hanno la loro influenza. Ci vorrebbe dunque un’altra classe dirigente, ci vorrebbe un altro paese, ci vorrebbe un’altra cultura delle libertà. Sì, è quello che ci vorrebbe.