Nordio finisce impantanato nella palude del governo
Meloni sdogana il lessico del rinvio. La riforma della giustizia resta nel vago del "cronoprogramma". Sui balneari serve un "tavolo interministeriale", sulle riforme una "ricognizione". Nella Rai vince il partito del temporeggiamento. E' la versione sovranista del "non lo famo ma lo dimo" di Boris
Il senso dell’incontro ce lo aveva chiaro fin dalla vigilia. “Andrò a dire cosa si dovrebbe fare, e ascolterò cosa si potrà fare”. Insomma Carlo Nordio ha capito, pur nella sua refrattarietà ai rituali romani della politica, che c’era bisogno di un po’ di scena. E il resto, il suo fastidio per il controcanto quotidiano oppostogli da esponenti della sua stessa maggioranza, del suo stesso ministero della Giustizia, così come le raccomandazioni alla continenza da parte di Giorgia Meloni (“Non offriamo alla stampa la possibilità di alimentare polemiche”), sono state il contorno di un colloquio, quello di oggi pomeriggio a Palazzo Chigi, da in cui è stato definito il famigerato “cronoprogramma”. Il che, nell’ottica del Guardasigilli, non è proprio rassicurante.
Perché in fondo anche la scelta della parola da parte della premier, “cronoprogramma”, dice di una certa ansia di esorcizzare la paura dell’inconcludenza ricorrendo all’armamentario retorico dell’empasse, quel lessico del pantano che sempre viene sdoganato quando tra il tirare a campare e il tirare le cuoia si sceglie la via di fuga preferita, in Italia: parlarci su. E così capita che Raffaele Fitto, dopo aver evocato un “rodaggio” a proposito della “ricognizione preliminare sul Pnrr”, s’inventi adesso un “tavolo interministeriale” per risolvere la grana dei balneari, laddove risolvere sta per prolungare la delega del governo, fare in otto mesi ciò che Draghi aveva stabilito andasse fatto in sei.
Elisabetta Casellati, ministra per le Riforme, ha avviato da dieci giorni un “giro di consultazioni” sulla futuribile svolta presidenzialista. E quando la delegazione del Pd, nell’incontro di ieri, ha spiegato di essere contraria al presidenzialismo, la ministra ha detto che “non è il momento di esprimere consensi o bocciature definitive”, perché appunto si tratta solo di una “prima indagine”, uno “scambio di opinioni”. I modelli proposti da Casellati ai vari partiti sono tre: quello americano, quello francese, e il premierato. E lei, spiega, ha mandato di capire “quale delle tre ipotesi può riscontrare un gradimento più ampio”. Solo che quando il dem Dario Parrini le ha chiesto di discutere di sfiducia costruttiva e di legge elettorale senza liste bloccate, insomma di quelle riforme che concorrerebbero alla agognata stabilità, Casellati s’è schermita: “E’ ancora presto, per queste tecnicalità”. E quando, la scorsa settimana, la pattuglia del Terzo polo ha domandato in che modo la riforma costituzionale si coordinerebbe con quella dell’autonomia, la ministra ha alzato le mani: “Di quella non mi occupo io”.
Se ne occupa Roberto Calderoli, in effetti. L’unico che, in questa caotica corsa sul posto, sembra avere fretta. “Ma solo perché ha bisogno di un qualcosa da offrire all’elettorato lumbàrd in vista delle regionali”, spiega un ministro meloniano. Lo stesso che ammette che sì, pure sulla Rai, la fazione di chi, dentro FdI, chiedeva cambiamenti radicali e repentini ha ceduto il passo a quella del rinvio, del temporeggiamento, insomma della palude.
E’ un po’ come nella migliore tradizione del cinema italiano fotografata magistralmente in Boris: è il “non lo famo, ma lo dimo”, è cioè il sintetizzare a voce scene che sarebbe troppo dispendioso realizzare davvero. Ed è in questa spirale che sembra avvitarsi anche la vitalità propositiva, per quanto guascona, di Nordio. “Praticamente stiamo riuscendo a litigare su cose che siamo ancora lontani dal fare, semplicemente perché le diciamo”, si lamentava giorni fa, coi suoi colleghi, quell’Andrea Delmastro, sottosegretario a Via Arenula e deuteragonista di questa annunciatissima riforma della giustizia. E così oggi, al termine dell’incontro tra il Guardasigilli e la premier, ai deputati di FdI è arrivato l’ordine di uscire in batteria per celebrare la risolutezza e la comunione d’intenti tra Palazzo Chigi e Via Arenula: come se da un lato non si fosse lamentato, nei giorni scorsi, “il fare un po’ naif” del ministro, e dall’altra non si fosse lasciata filtrare l’insofferenza per lo scarso sostegno ricevuto. Senza contare, poi, che tra i due litiganti c’è un terzo che vuole proporsi come mediatore, e cioè Matteo Salvini, e che però rischia pure lui di complicare le cose. Perché l’indagine conoscitiva sullo stato delle intercettazioni avviata con solerzia dalla leghista Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia al Senato, va assumendo contorni sempre più ampi, con un elenco di audizioni che lievita e con pareri così polarizzati – da un lato l’Anm, dall’altro le Camere penali, da un lato la Federazione nazionale della stampa, dall’altro il Garante della privacy, e poi costituzionalisti, periti forensi, AgCom … – che facilmente finirà per alimentare la polemica delle opposizioni, anziché stiepidirla, sulla riforma della giustizia. E la distanza tra ciò che si dovrebbe fare, e ciò che fare si potrà, cresce anche così.