l'analisi
La buona riforma del fisco di Meloni ha un nemico invincibile: i bonus
Si nascondono tra gli emendamenti alle varie leggi e poi non si tolgono più. E permettono all'esecutivo, che difficilemente potrà rinuncervi, di premiare i propri elettori. Così anche l'idea giusta di rivedere complessivamente un sistema fiscale iniquo rischia di trasformarsi in una riformicchia
L’approccio del governo alla riforma del fisco è quello giusto. Non interventi parziali, frammentati, contraddittori. Bensì – a parole – una rivisitazione complessiva del sistema fiscale oggi fortemente iniquo perché avvantaggia chi evade e penalizza chi paga anche per i primi. Nuova Irpef con meno aliquote, via l’Irap, rivisitazione dell’Ires, flat tax allargata e tante altre cose. Non tutte buone. Si vedrà. Bene il metodo, dunque, in attesa dei fatti.
Il progetto di riforma dovrebbe arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo. Male però sul fronte del recupero delle risorse per finanziare un’operazione di tale portata, visto che l’idea di comprimere la spesa pubblica (1.100 miliardi ogni anno, giusto per ricordarlo) resta un tabù nonostante la svolta “compatibilista” di Meloni e compagnia sovranista. Male, perché torna negli annunci la formula magica, poco credibile e molto aleatoria (che si è sostituita a quella un tempo assai di moda del recupero dell’evasione e dell’elusione fiscale) del taglio alle tax expenditure, alla marea di agevolazioni che in questi ultimi decenni sono state l’asse portante di tutte le norme fiscali. Per acquisire consenso (tendenza non solo italiana) nel brevissimo termine, non per migliorare il fisco nel tempo lungo e che ha confuso le politiche per il welfare con quelle sulle tasse.
Due piani invece distinti delle politiche pubbliche perché una cosa sono i sostegni economici, altra sono la predisposizione di servizi sociali. La seconda richiede molta politica, con scelte nette e responsabili, e poco equilibrismo tattico. L’ultima legge di Bilancio è solo una conferma di questa distorsione: bonus a pioggia e un po’ per premiare i propri elettori, il proprio bacino economico-sociale di riferimento con costi che si scaricheranno nel tempo su tutti gli altri contribuenti. E un solo argine, per fortuna: i vincoli europei anche se in questo campo sono spesso aggirabili. I bonus sono opacità politica, e pure irresponsabilità politica. Arrivano con gli emendamenti alle varie leggi e poi non si tolgono più. Si disperdono nei meandri delle Gazzette ufficiali e lì rimangono protetti. Incrinano facilmente l’equità tra i cittadini, le famiglie, le imprese. Drenano gettito fiscale. Tanto.
L’ultimo Rapporto annuale sulle spese fiscali del ministero dell’Economia certifica che le minori entrate per le casse dello Stato sono state nel 2022 pari a 82,3 miliardi, erano 47,8 nel 2017. Nel 2023 stima che le cose non cambieranno per nulla: 82 miliardi in meno per lo Stato centrale, 43,6 miliardi in meno per la fiscalità locale, in tutto meno 125,6 miliardi anche quest’anno. Ai quali vanno aggiunti i quasi 100 miliardi di evasione. Nell’arco degli ultimi sette anni le agevolazioni fiscali sono aumentate di oltre il 40 per cento: erano 444 nel 2016, sono 626 nel 2022, spinte dalle misure – va riconosciuto – per fronteggiare le emergenze Covid, energia, guerra in Ucraina. Resta il fatto che – come diceva Ezio Vanoni nel 1949, uno che di riforme fiscali se ne intendeva – “una esenzione, in questo dannato paese, non si rifiuta a nessuno”. Di strada, infatti, ne abbiamo fatta decisamente molta.
Così è difficile credere all’idea che si possa intervenire con l’accetta su un sistema di esclusioni, esenzioni, eccezioni, deduzioni, sconti, crediti di imposta che produce voti, riduce il ruolo e il potere di intermediazione e mediazione dei grandi attori sociali (sindacati e Confindustria) e rafforza il rapporto diretto tra il potere politico e gli elettori (bonus Renzi, do you remember?). Bisognerebbe intervenire con il bisturi. Ma a chi togliere? La destra che ha fatto del fisco lo strumento decisivo per le sue vittorie elettorali annuncerà tanto ma farà fatica a fare con i cicli elettorali che si sono così drasticamente ridotti. Giorgia Meloni non è Margaret Thatcher, neanche in miniatura. Si prospetta allora l’ennesima riformicchia, frutto di questi tempi di piccola politica. Quella dei bonus. Ha scritto l’antropologo Adriano Favole sulla Lettura del Corriere della sera: “I bonus assomigliano ai doni che i padroni facevano ai clienti. Evocano un potere arbitrario, non certo il potere di morte dei “re divini” che uccidevano a casaccio, ma quello, più consono ai nostri tempi, che attiva e disattiva leve economiche a seconda del vento del consenso che soffia in quel momento. In alcuni casi, il bonus sfiora la carità, la mancia ai poveri, la paghetta che i genitori concedono ai figli con un affettuoso paternalismo”. Chi ha il coraggio di rinunciare ai bonus? Per il fisco dei cittadini – meglio saperlo in anticipo - c’è ancora da aspettare tanto.