Il libro
Le origini contano, anche nella famiglia radicale di Eugenia Roccella
I genitori idealizzati, le lotte e la fede. Dal padre Marco alla madre Wanda: come la ministra è passata da figlia a genitrice. E poi il ricordo di Pannella e quella religiosità ammessa con fatica anche a se stessa
Sarebbe bello poter aprire il libro della propria vita come Bulgakov nel “Maestro e Margherita” o Nabokov nel “Dono”. Invece, niente stagni Patriarsie o numeri civici di Tannenbergstrasse, scrive Eugenia Roccella all’inizio del suo “Una famiglia radicale” (Rubbettino): lei deve accontentarsi di Riesi, provincia di Caltanissetta. Lì, in una notte di primavera del 1954, Franco Roccella piomba inaspettato da Bologna nella casa paterna, in braccio la figlia di sei mesi, Eugenia. Lui e la mamma della piccola, la bolognese Wanda Raheli, sono troppo occupati a vivere per fare i genitori, e la bambina viene consegnata a Sarina, sorella maggiore di Franco, zitella destinata a rimanere tale e ben felice di quel dono. Questo voleva sembrare: un dono più che un abbandono. “Se non proprio un regalo, un prestito a lungo termine. Io rimasi. Mio padre il giorno dopo salutò e se ne andò, per riprendere la lunga fuga che è stata la sua vita, con i suoi eterni ritorni siciliani”.
Comincia così, con una scena da romanzo d’appendice, un memoir che in poco meno di duecento pagine racconta la vicenda personale dell’autrice, intrecciandola a quella pubblica e privata del mondo di cui suo padre Franco è stato una figura chiave, sua madre Wanda riferimento riconosciuto, e di cui la stessa Eugenia, leader femminista e radicale a vent’anni e oggi ministra della Famiglia e delle Pari opportunità nel governo Meloni, ha fatto pienamente parte.
È il mondo del Partito radicale nato dall’Unione goliardica italiana, che in nome di ideali “liberali, liberisti e libertari” si affermerà come piccolo ma rilevantissimo terzo incomodo tra democristiani e comunisti. Eugenia ricorda la casa romana della sua famiglia come un luogo in cui ascoltava incantata “le discussioni nel gruppo ristretto degli ex goliardi, che commentavano la politica italiana ed estera, parlavano di letteratura, estetica, di qualunque argomento, sprizzando intelligenza e anticonformismo da tutti i pori. Non sapevo bene cosa significasse la sigla Ugi, che ricorreva nei loro discorsi; capivo, però, che definiva il loro modo di stare insieme, di lanciarsi strali acuminati e ironie imperdibili, di separarsi e ritrovarsi di continuo, accomunati da qualcosa che poteva essere lacerato molte volte senza distruggersi”.
Il dominatore di quel gruppo – che contava, tra gli altri, Sergio Stanzani, Gino Roghi, Tullio De Mauro, Gino Giugni, Sergio Castriota, Lino Jannuzzi, Stefano Rodotà – era ovviamente Pannella, che “non aveva nulla del sognatore, aveva i piedi ben piantati per terra, era concreto, spregiudicato e pragmatico”. La sua creatura, il Partito radicale, “ha perso politicamente ma ha stravinto sul piano della cultura diffusa, avanguardia di un pensiero irregolare che oggi è senso comune banalizzato”. “Lo scandalo radicale è stato riassorbito”: ora, a fare scandalo tra i nuovi benpensanti è semmai il percorso che ha portato Eugenia Roccella dalle battaglie radicali e femministe a un cattolicesimo che non rinnega il femminismo, e alla consapevolezza che o libertà e responsabilità camminano insieme, o la libertà senza responsabilità divorerà gli esseri umani e annienterà le più nobili cause.
“Tutto quello che so della politica l’ho imparato da Marco, e non l’ho più dimenticato”, rivendica Roccella. Ma conta anche il lascito degli anni di Riesi, della grande famiglia siciliana e del nonno Eugenio, il notaio che credeva nell’intelligenza delle donne e nel loro diritto di studiare, anomalo uomo del sud che portava il caffè al letto alla moglie. La zia Sarina – madre supplente negli anni in cui Franco e Wanda facevano rare visite lampo alla loro bambina, lasciandola senza fiato per la felicità, all’arrivo, e senza fiato per la desolazione, alla partenza – pretende il battesimo per Eugenia, quando i genitori annunciano di voler portare a Roma la figlia, che ha ormai sei anni. E il battesimo sarà degno di una famiglia radicale: Franco sceglie come padrino l’amico mangiapreti Stanzani, mentre Eugenia, quando otterrà anni dopo di fare la prima comunione, vorrà come madrina Liliana Pannella, sorella di Marco e anticlericale a tutto tondo.
Con questo racconto e tali premesse, Eugenia Roccella vuole spiegare la genealogia delle proprie scelte ma vuole anche restituire al padre il ruolo che in vita gli fu negato. Nessun tono agiografico: nelle parole della figlia, Franco appare come un uomo geniale e generoso ma avaro ed elusivo con la propria famiglia, coraggioso e lungimirante interprete dei tempi ma dissipatore disperato di talenti e risorse. Però i radicali sono esistiti grazie a lui, e per Pannella fu mentore e riferimento autorevole e paterno, se non altro perché Roccella lo salvò in gioventù da un tentativo di suicidio, raccontato in questo libro forse per la prima volta. Franco però non si trasformò mai da pannelliano in “pannellato”, come lui definiva i ciechi seguaci del capo indiscusso, e quell’insubordinazione intellettuale minò i rapporti con Marco e con gli amici di un tempo. Negli ultimi anni prima di morire, già malato, fu lasciato solo e sperimentò l’emarginazione da parte del mondo che aveva contribuito, e non poco, a creare.
La parte più bella del libro, insieme con gli anni di Riesi, è proprio quella in cui Eugenia racconta come sia diventata, fin dall’adolescenza, madre dei propri genitori: di Franco, con un bilancio economico ed esistenziale perennemente in rosso; di Wanda, affermata pittrice sempre fragile e trasognata; la madre meno materna del mondo, che arrivava con la figlia alle riunioni di donne e partecipava allo stesso gruppo di autocoscienza, circostanza forse unica nella storia del femminismo italiano, se non mondiale. Quando Wanda Raheli si ammala all’improvviso in modo gravissimo, un’operazione che in Italia nessuno vuole fare viene tentata in Canada, e dopo il coma ci vorranno due anni perché reimpari, con l’aiuto della figlia, a parlare, mangiare da sola, scrivere, camminare, dipingere. Nelle lunghe veglie accanto alla madre, quando ancora non sa se si sarebbe ripresa, Eugenia prega: “Pregavo qualcuno che avevo sempre sentito vicino, ma la cui presenza non accettavo, come un innamorato impresentabile di cui vergognarsi con parenti e amici. Per tanto tempo non avevo ammesso la mia fede nemmeno davanti a me stessa, anche se talvolta il dialogo con l’interlocutore segreto riprendeva, quasi inconsapevolmente, cogliendomi di sorpresa”.
“Una famiglia radicale” è un libro a tratti durissimo, anche se in Eugenia Roccella non viene mai meno l’ammirazione per l’onestà di Franco, né la tenerezza per le fragilità di Wanda. L’amore per quei genitori idealizzati nella lontananza, che erano stati dèi ai suoi occhi di bambina, si accresce dopo che gli dèi sono caduti e lei ne può vedere i limiti, le debolezze, le trascuratezze, perfino certe distratte crudeltà. Rimettere insieme i frammenti delle statue degli dèi decaduti, come lei fa in questo libro, è un atto di pietas filiale ma è anche un modo per dire: le origini contano e questa sono io, questa è la mia famiglia. Una famiglia radicale.