L'apologo
Urso vende a Meloni un accordo che non c'è e insulta il suo staff: "Traditori, vi caccio tutti"
Dietro le dimissioni del capo delle segreteria particolare del ministro c'è un litigio violentissimo tra il ministro delle imprese e Made in Italy e il suo staff. Insulti, clima di terrore. Un racconto
Quanto può essere pericolosa la smania di un ministro? Cosa è pronto a fare per brillare agli occhi del suo capo? L’episodio simbolo dei cento giorni del governo Meloni ha come protagonista Adolfo Urso, ministro del Mimit, imprese e Made in Italy. Dietro le dimissioni del suo capo di segreteria particolare (le ha rassegnate ieri) si nasconde infatti una tecnica di potere, la fragilità della dirigenza di FdI, la paura e l’ansia di un governo.
La notizia che Valentina Colucci, capo della segreteria particolare del ministro Urso, stia per lasciare il ministero, dimettersi, si diffonde lunedì mattina. Non è un’uscita concordata ma causata da un litigio violentissimo tra Urso e il suo staff. Si consuma tra il 23 e il 24 gennaio, giorni in cui esplode lo sciopero benzina, primo grande inciampo comunicativo del governo. Urso vuole consegnare alla premier un “trofeo”. E’ convinto di poter scongiurare la protesta e di aver chiuso un accordo con i benzinai. E’ cosi sicuro da chiamare la premier, in visita ad Algeri, e comunicarle che “è fatta”. Vengono allertate le tv per dare la notizia al Tg delle 20. L’intesa in realtà è solo con una sigla. Un’altra si oppone. L’accordo non c’è mai stato. Urso si sfoga con i suoi collaboratori, minaccia “provvedimenti disciplinari”. Li accusa di slealtà.
Il racconto comincia da quel momento. La scena si svolge in Via Veneto, sede del ministero delle imprese e del Made In Italy. Meloni per quell’incarico ha scelto Urso, un ministro competente, uno dei dirigenti di FdI con maggiore storia politica, già presidente del Copasir. Quando Urso si insedia teme che il suo volto sia poco conosciuto rispetto a quello di Lollobrigida, Crosetto, Fitto, i più noti del partito. Comincia a rilasciare interviste (il ritmo è altissimo) e cerca di avvalersi di un portavoce. Forma presto la sua squadra. Sceglie come capo di gabinetto Federico Eichberg e Colucci, capo della sua segreteria particolare. Chiede a Gerardo Pelosi, già firma economica del Sole 24 Ore, e oggi in pensione, di aiutarlo sulla comunicazione.
Urso completa il suo staff con Mario Ciampi, capo della segreteria tecnica. Fare il ministro delle Imprese e del Made in Italy significa gestire “crisi aziendali” e lavorare in coppia con il ministro del Lavoro. A Urso manca una spalla. La collega Marina Elvira Calderone, docente e “tecnica”, viene travolta dal dibattito sul Reddito di cittadinanza che si trascina per settimane ed è affiancata da Claudio Durigon, un leghista che riesce a essere presente sui giornali. Urso soffre.
E’ chiamato a “coprire” anche la parte della Calderone e comincia a mettere sotto pressione lo staff. Chi lavora al ministero parla di “un clima di terrore e angoscia”. La protesta dei benzinai, il malessere di Meloni fanno il resto. Urso coltiva una simpatia con la Faib, la sigla dei benzinai più dialogante ed è convinto che questo basti a scongiurare lo sciopero. Restano da convincere le altre, Figisc e Fegica. E’ il 24 gennaio pomeriggio. Il ministro convoca le sigle. Le fa chiamare alle 14,40 per un tavolo che si tiene alle 15. Telefona a Meloni per “vendere” questo successo: “E’ fatta”. Il capo di gabinetto si mobilita, il portavoce fa altrettanto: “Forza, chiama i giornalisti” dice uno. L’altro avvisa i colleghi: “Ci potrebbe essere una notizia, preparatevi”. Chi passa in quella stanza, dove si svolge tutta la scena, si renderà conto, solo dopo, di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tra quelle persone c’è Colucci, una professionista che ha lavorato con ben otto ministri, l’ultimo è stato Federico D’Incà.
La notizia dell’accordo “fatto” arriva alle sigle più combattive. Comprendono che Urso aveva dato per chiuso qualcosa che non era stato ancora negoziato con loro. L’accordo non c’è. Meloni si infuria, Urso scarica la rabbia. Crede che i suoi collaboratori lo abbiano tradito anticipando la notizia. Pronuncia parole irriferibili contro di loro. Ansia e cattiva gestione si trasformano così in un processo sommario. I collaboratori, tra questi Colucci e Pelosi, chiedono al ministro di riflettere. Senza fiducia non proseguono. La lite al ministero diventa di dominio e viene confermata. Urso viene scavalcato dagli eventi. Cerca una via d’uscita. A Pelosi viene proposto di occuparsi del ministero e di affiancare il sottosegretario Valentino Valentini. Colucci non accetta nessun’altra proposta e decide di formalizzare le dimissioni. La morale? Non c’era stata nessuna fuga di notizie ma solo fretta di vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso. Quanto raccontato diventa l’apologo di questo tempo e del governo Meloni. Il titolo è “La pelle dell’Urso”.