la spiegazione
Perché la legge sull'autonomia è pensata per non funzionare
I ddl simili a quello di Calderoli sono stati tanti negli anni. Ma in questo caso l'intenzione del governo Meloni sulla proposta sembra tenere quieta la maggioranza e dirottare il dibattito pubblico. Una legge che pare di difficile approvazione e senza futuro
Nell’accompagnare il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, il governo ha ricordato che sono più di venti anni che il modello di regionalismo asimmetrico aspetta di essere utilizzato. E questo nonostante il fatto che, già dopo pochi anni dalla riforma del titolo V, esso sia stato invocato dalle regioni più insoddisfatte dal modello uniforme di regionalismo e dal sostanziale fallimento di una strategia di trasferimenti di risorse e aiuti al Sud, che è riuscita al tempo stesso a estromettere il Nord e non aiutare il Sud. Come si ricorderà, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto anni fa hanno avviato formalmente una negoziazione con lo stato, mentre altre regioni, più o meno formalmente, dichiaravano di volervi ricorrere.
Si è trattato di tentativi che hanno coinvolto l’opinione pubblica (chi non rammenta i referendum di Lombardia e Veneto?) al punto da scatenare una spinta emulativa persino di regioni come la Campania. Ma il racconto di una “questione settentrionale” in opposizione alla “questione meridionale” ha mandato a monte la possibilità di una riflessione seria sul modello regionalistico italiano e sulle sue possibilità di sviluppo, riducendo tutto alla cagnara politica. Nel frattempo, vari sono stati i tentativi dei governi di definire una cornice normativa unitaria per il regionalismo differenziato. Il disegno di legge del ministro Calderoli è l’ultimo di questi. In molti si chiedono se sia la volta buona.
Forse dovremmo porci anche un’altra domanda: se il governo voglia che sia la volta buona. Sembrano chiari i motivi per i quali il presidente Meloni e i suoi enfatizzano in questo momento l’agenda delle riforme istituzionali e costituzionale: essa concilia bene la necessità di tenere quieta una parte della maggioranza (la Lega) con quella di dirottare il dibattito pubblico con temi a invarianza finanziaria. Tuttavia, la proposta sembra avere due problemi di fondo, di cui è difficile che la presidenza non sia consapevole. In primo luogo, al pari delle precedenti, essa insiste sulla forma della differenziazione, ma non consente di comprenderne bene la sostanza. Il disegno non pare infatti accompagnato da una cornice, seppur sommaria, di quali possano essere in concreto le funzioni trasferibili. In assenza di ciò, difficilmente si potrà tranquillizzare quanti (e sono tanti) temono la sottrazione di funzioni essenziali per la garanzia dei diritti, ad esempio in materia scolastica, oltre che sanitaria.
In secondo luogo, e in maniera collegata, la proposta prevede che i livelli essenziali delle prestazioni siano determinati con atto del governo.
Per quanto la competenza esclusiva dello stato nella loro determinazione non implichi una riserva di legge, il fatto che la loro individuazione rappresenti il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivi i diritti a essi connessi può far dubitare della correttezza di individuarli, senza almeno una cornice legislativa di riferimento, con atti regolamentari.
Nella prima giurisprudenza costituzionale sui livelli essenziali, la Corte chiariva che la competenza esclusiva statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni implicasse una riserva di legge relativa, ossia che - almeno nelle loro linee generali - essi fossero individuati con legge. Nel tempo, in alcuni ambiti, come quello sanitario, sono stati individuati i livelli di servizio da garantire, ma per molti altri, come nel settore sociale e scolastico, ancora no, tanto che ancora nel 2021 la Corte costituzionale biasimava il “perdurante ritardo”.
La procedura fissata dal disegno di legge Calderoli affida invece la loro determinazione a una articolata procedura coerente sì con il principio di leale collaborazione (dato il passaggio in Conferenza stato regioni) ma confinata, a parte un passaggio di parere parlamentare, all’interno del potere esecutivo. Non sembra troppo chiedersi, quindi, se tale complessa architettura sia stata pensata proprio per non funzionare: alle difficoltà politica di approvare la legge rischia infatti di aggiungersi la possibilità che qualcuno – dalle fila delle regioni – possa invocare dubbi sulla correttezza della procedura.