Tra Algeri e Kyiv. Tutti i motivi per cui Meloni non vorrà abbassare la tensione con Macron

Valerio Valentini

La sfida in Africa e la corsa a chi andrà per primo a trovare Zelensky. Ma anche i dossier dove la cooperazione è necessaria, a partire da quello militare. E la ricerca di nuovi equilibri a Bruxelles. A Palazzo Chigi paragona la premier a Craxi. E dicono: "Ora l'Ue è lei". Auguri

C’è chi, dando ragione a Churchill, la baruffa la spiega col calcio. “Credo che la finale del 2006 rappresenti al meglio la situazione: quando l’Italia vince la Francia reagisce come Zidane”, scherza Francesco Lollobrigida. E scherzando, però, illumina a modo suo un diffuso umore patriottico: altro che pentimento, altro che rammarico, in FdI questo pastrocchio diplomatico viene visto come un trionfo. O forse è tutta una manovra diversiva, una suprema dissimulazione. Ma è talmente convinta, se non convincente, che pare preludere non a giornate di ravvedimento, ma di rivendicazione. Perché se Macron la ignora, Giorgia Meloni, è “perché la teme”, dicono a Palazzo Chigi. Dove la loro leader la paragonano a Craxi: “L’odio di Macron deriva dal fatto che per la prima volta dai tempi di Bettino l’Italia si muove autorevolmente nel mondo”.

Starebbe qui, insomma, l’origine della tensione. Nel “nuovo protagonismo italiano”, insistono i custodi della Fiamma. Nel fatto, ad esempio, che l’attivismo di Meloni nel Mediterraneo riesce così fortunato, loro dicono, proprio perché  “i leader  patrioti africani” guardano a lei come alternativa a un modello di cooperazione, quello francese, “improntato più al neocolonialismo che non alla solidarietà”. Che poi Mario Draghi fosse riuscito ad avviare prima di tutti quegli accordi con Algeri, oltreché con Congo e Angola, che ora consentono a Meloni di sognare il suo “Piano Mattei”, e che avesse saputo farlo mantenendo la migliore amicizia con Macron, non è evidentemente un dato considerato, nell’analisi sovranista. E anzi si fa notare di come non sia un caso che proprio nelle prossime settimane Macron abbia organizzato un nuovo tour diplomatico africano, “forse per recuperare il terreno perduto?”. Niente cuginanza e “parentele bastarde”, tra Roma e Parigi c’è di nuovo “la barricata”.

E del resto, di ritorno dal suo viaggio dagli Emirati arabi, Guido Crosetto, il ministro della Difesa che è per certi versi il più diplomatico tra i meloniani, ha raccontato di come perfino lì, a quelle latitudini, si riscontri un nuovo sentimento verso l’Italia. E lo stesso lo si è colto nel doppio bilaterale romano coi ministri degli Esteri e della Difesa britannici. “Altro che isolamento”. E dunque nuove dosi di orgoglio:  il rinnovato convincimento che il confronto muscolare con Macron paghi.

E così, nelle mosse del presidente francese, a Via della Scrofa si riscontra come un fallo di reazione. Che insomma a vedere Zelensky celebrato a Westminster, Macron sarebbe andato nel panico: di lì l’annullamento della serata a teatro con la moglie Brigitte, e l’allestimento in tutta fretta di un cerimoniale che voleva essere altrettanto pomposo di quello londinese, compresa una cerimonia a Les Invalides poi annullata. E nel frattempo l’invito a Olaf Scholz, e poi il viaggio verso Bruxelles insieme all’amico Volodymyr, sull’aereo presidenziale e con tanto di colazione a base di croissant. “Il tutto per far vedere che è lui, Macron, ad accompagnarlo al Parlamento europeo: non è patetico?”. 
C’è un po’ il ritorno al proprio essere, la riaffermazione di una ossessione antifrancese che Giovanbattista Fazzolari, uno che Meloni chiama “il genio”, non ha remore a manifestare, quando ricorda di come l’establishment italiano sia pieno di gente decorata con la Legion d’onore – la stessa appena concessa da Macron a Zelensky  – e dunque in odore di alto tradimento.

Che poi sia davvero sostenibile, questa sfida con la Francia, il che vuol dire con la Francia e con la Germania, è un dilemma che non sembra angosciare troppo i consiglieri di Meloni. Un po’ perché su alcuni dossier la collaborazione pare obbligata. Sui Samp/T, la difesa antiaerea in sostegno di Zelensky, ci si parlerà nei prossimi giorni. A inizio marzo, poi, Bruno Le Maire dovrebbe venire a Roma, ospite di Giancarlo Giorgetti, per superare gli attriti nati dal viaggio del ministro dell’Economia francese col collega tedesco Robert Habeck a Washington, con l’Italia rimasta di nuovo appiedata.

Sul resto, à la guerre comme à la guerre. E poco importa che sui dossier più delicati, quelli su cui Matteo Salvini ha lasciato intendere che il governo italiano è pronto a esercitare ritorsioni, il coltello dalla parte del manico sembra averlo Macron. Il quale,  a Bruxelles, quando la discussione si è soffermata sulle procedure di rimpatrio dei migranti, ha liquidato come “esotiche” le proposte di Roma e Varsavia. E quando qualcuno, nella delegazione italiana, ha sollevato dubbi sulla “modestia” dell’accordo sugli aiuti di stato, ha ricordato che “prima che volassi io a Washington nessuno aveva sollevato mai il problema dell’Ira di Biden”: come a dire che il tempo per cercare una sponda francese contro il rigore tedesco è passato. Ma poco importa, per Meloni. “Perché se da un lato ci sono Parigi e Berlino – insistono i suoi – dall’altro ci sono 25 stati membri che non accettano un ruolo di comparse, e che da oggi hanno un  riferimento”. Da oggi,  c’è Giorgia. “Lei è l’Europa”. E la prossima sfida è già fissata. Chi andrà, per primo, a Kyiv: lei o Macron? A Via della Scrofa  accettano scommesse. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.