Foto di Andrew Medichini, AP Photo, via LaPresse 

paralleli

Meloni è diversamente fascista. In Italia l'idea “Dio Patria e Famiglia” piace, ma “nun ce se crede”

Giuliano Ferrara

Mica è Le Pen, davanti a un popolo di radicalità e di rivoluzionarismi giacobini. La premier vince nel nostro paese perché abile e arruolata, non costituisce un problema neanche per l'opposizione

Abile e arruolata. Così Meloni non fa problema. Né per Enrico Letta né per Stefano Bonaccini, suo probabile successore a capo del Pd. Non è fascista, e questo è un dato sapido e consolante. È abile, visto il miracolo elettorale e politico che l’ha portata da percentuali irrisorie e da posizioni di opposizione isolata, in dieci anni, alla guida del governo. Dal momento che non sfonda il deficit, non destabilizza finanza ed economia, non fa la famosa macelleria sociale, tempera i furori ideologici degli alleati e li rinserra in una perfetta posizione di politica estera e di difesa, in tempi di guerra in Europa, insomma sta dalla parte giusta della barricata, ecco che bisogna essere critici sì, ma in modo misurato. Non sarà un decreto un po’ ebbro sui rave, non sarà un dissidio con la Francia e Macron tenuto nei limiti di una dialettica intraeuropea, non sarà l’esplosione di chiacchiere e accuse vagamente calunniose su Cospito e mafia da parte di colonnelli meloniani imbizzarriti e redarguiti, non sarà tutto questo, che non è poco e non è molto, a correggere l’impassibile giudizio imparziale dei capi democratici. 

 

Come sempre nel mondo lettiano e postlettiano, la metodologia è a posto. Corretto il campo largo, ma poi non si può fare e comunque non si fa. Giusto il richiamo all’agenda Draghi, anche se l’insistenza in politica sgonfia anche le mongolfiere e i palloni cinesi. Lucio Colletti diceva che “la metodologia è la scienza dei nullatenenti”, il suo linguaggio era spregiudicato e intellettualmente cattivo. Il Pd non è nullatenente, lo si è visto anche in occasioni un po’ racchie come le recenti regionali, e lo si è visto con il piccolo boom nel Gran Milan e tra i giovanotti e le giovanotte. Certo che è molto metodologico. Vuole i celebrati territori, cerca disperatamente i vulnerabili, insomma gli oppressi del XXI secolo, offre loro prevalentemente un’etichetta. Loro preferiscono Meloni, con i suoi alleati, il rimpannucciato Salvini, il non rimpannucciabile Berlusconi, perché fingono di conoscere le buone maniere mentre sono di essenza un po’ trucida o trucibalda al di là di ogni dissimulazione anche onesta, e offrono certezze e sostanza, come nel caso dei concessionari balneari, delle cartelle rottamate, dei fiori che Sanremo ha preso a calci.

 

Il concetto metodologico dell’abilità dell’avversario da riconoscere, e la ormai piena assoluzione dall’accusa di fascismo, ideologia incompatibile alla fine col fascismo liberale di questi qua, vanno benissimo, niente da dire. Salvo che a insistere, come per l’agenda Draghi, poi si rischia di sgonfiare i palloni, non solo cinesi. Nel senso che l’opposizione, posto che sia quella la via per crescere e diventare forza nuova di governo alternativo, ha bisogno di un certo fuoco nella pancia. Con juicio e una certa dose d’ironia. A prendere poi l’Italia troppo sul serio, e questo vale sopra tutto per la filosofia concretista e pragmatica di un Carlo Calenda, altro metodologo, si rischiano brutte facciate. Però nemmeno la campagna elettorale primaria può giustificare la dizione preferita da Beppe Provenzano e Andrea Orlando, leader della sinistra della sinistra, cosiddetta, i quali perentorieggiano: “Meloni è il governo peggiore di sempre”. Cari sinistri alla Manu Chao, che vi gusta el movimiento, rassegnatevi.

 

Con tutto il peso dello scontro vero tra culture, non riducibile alla toponomastica della Ztl contro le periferie più o meno esistenziali, l’essenza del nostro sistema politico, dal connubio Cavour-Rattazzi alla sinistra storica, fino al giolittismo, al fascismo mezzo razzista e mezzo liberale nel suo autoritarismo bacato e bucato, e fino al regime democonsociativo e alla Seconda Repubblica, è un’essenza trasformistica. A posteriori si può dire che neanche il governo Salvini-Di Maio, finito nei saltelli dj del Papeete e trascorso nella vaniloquente e impotente (per fortuna) caccia al negher in compagnia dei gilet gialli, fu “il peggiore di sempre”. Il trasformismo non considera palatabili espressioni politiche superlative nel giudizio. Il deficit non fu sfondato nonostante il Reddito di cittadinanza, l’Europa fu sfidata a chiacchiere, l’immigrazione e le ong continuarono se Dio vuole a fiorire nel soccorso marittimo, e alla fine il trasformismo divorò in un sol boccone i “pieni poteri”.

 

Questo sappiamo fare: ondeggiare tra formule magiche, affermare valori in contrasto per disfare la tela di ogni valore, accompagnare le debolezze e la forza di una nazione operosa e pigra, importante e irrilevante, con un sistema di comando che prevede solo smentite delle formule troppo gradasse e irreconciliabili. Marine Le Pen ci ha provato tre volte senza successo, perché il suo è un paese di radicalità e di rivoluzionarismi giacobini; Giorgia Meloni, che un po’ diversamente fascista è, suvvia, non esageriamo, ha avuto successo alla prima botta perché qui tutti lavorano su grandi idealità e retoriche, tipo Dio Patria e Famiglia, ma come si dice a Roma “nun ce se crede”. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.