la ricostruzione
La rete di sicurezza di Meloni per puntellare la sua maggioranza
Da Pier Silvio, a Giorgetti. E poi Fini e La Russa, che conoscono le questioni romane. E ancora Tremonti. Così la premier ha costruito una diplomazia parallela dentro FI e Lega per mettere al riparo la tenuta del governo
È la sua rete di sicurezza, la diplomazia apparentemente alternativa, e in verità primaria, che s’attiva alla bisogna. Sono consuetudini che penetrano fin dentro gli anfratti più inaccessibili di Arcore e che al contempo collegano Palazzo Chigi con Via XX Settembre, ma non solo. Ci sono di mezzo i rampolli della real casa di Berlusconi, da un lato; e c’è Giancarlo Giorgetti dall’altro, e oltre a lui c’è Massimiliano Fedriga. Giancarlo Fini, Ignazio La Russa e Giulio Tremonti sono altri ufficiali di collegamento d’eccezione. Quando la strettoia degli alleati bizzosi s’approssima, è su questi contatti che Giorgia Meloni confida per elaborare una manovra elusiva. E talvolta neanche ci s’arriva, a questo punto: ché la funzione principale di questo esercito della stabilità è la deterrenza. “Fare scherzi? Non ci provate”.
Col Cav., c’è poco da fare, la sintonia fatica a sbocciare. Sarà pur vero, come ripete il presidente del Senato, che “ultimamente l’atteggiamento di Silvio nei confronti di Giorgia sta cambiando”. E però chi ha raccolto gli ultimi sfoghi di Berlusconi, racconta di come ogni volta che si passa in rassegna lo scacchiere internazionale, l’ex premier sia solito misurarne i vari protagonisti, trovandoli tutti in difetto di quel chissà che. Quando poi si passa alle baruffe di casa nostra, sulle dinamiche del governo, il giudizio si fa ancora più desolato. Se insomma il Cav. non perde occasione per dire come la pensa sulla guerra in Ucraina, non è per dispetto verso la premier, né per debiti indicibili nei confronti di Putin: “È che lui resta convinto che, lui saprebbe davvero risolverla questa crisi”, racconta chi lo conosce bene.
Come che sia, ci sta che Meloni si mostri sinceramente preoccupata, più che dalle strategie del Cav., dalla sua “imprevedibilità”. E talvolta, quando queste inquietudini raggiungono il livello di guardia, la premier non disdegna di rivolgersi a Marina Berlusconi, descritta a Palazzo Chigi come un “fonte di perenne ragionevolezza”. Quando gli eventi sembravano precipitare, nelle ore più turbolente della formazione del governo, fu proprio lei, pare, a intervenire. “È l’unica donna della famiglia che è sempre un passo avanti rispetto a Silvio”, disse in quei giorni un attuale ministro meloniano, ammiccante. In verità anche Piersilvio fa parte di questo comitato di salute pubblica. E le voci di chi vorrebbe che eventuali ritorsioni berlusconiane si esercitassero sui palinsesti di Mediaset prova, a quanto pare, proprio a minare questo rapporto.
Poi, ovviamente, c’è Antonio Tajani. Nel comporsi quotidiano dell’agenda, è a lui che Meloni si rivolge. Un ruolo di ambasciatore privilegiato che comporta ovviamente anche le sue rogne, per il ministro degli Esteri, che troppo spesso si ritrova sulla linea di faglia tra le ragioni del governo e quelle di Forza Italia. La stessa lungo cui si muovono, ma con altro passo e diverse priorità, anche i pretoriani di Giorgia. Da un Lato c’è La Russa, dall’altro c’è Fini: sono loro che conoscono, meglio di tutti, le tante diplomazie romane, sono loro che vantano i rapporti privilegiati con le ambasciate, i grand commis di ogni ordine e grado. Sarà da lì che si passerà, se mai si arriverà al punto di non ritorno, per costruire questo chiacchierato “nuovo partito di centro”: una specie di truppa di riserva pronta a compensare l’eventuale diserzione di truppe forziste in libera uscita (verso dove, poi, ancora non si sa). Un ruolo, questo, che a suo modo svolge – vantando peraltro una consuetudine non banale col mondo americano – Tremonti. Il quale, però, guarda semmai all’altro possibile fronte di crisi. Quello leghista.
Lì, al momento, tutto ribolle in silenzio. Con Matteo Salvini, anzi, i Meloni finora s’intende bene. I due si vedono quasi ogni giorno a Palazzo Chigi, dove il ministro dei Trasporti ha il suo ufficio da vicepremier. E fintantoché la condotta del capo leghista resterà fedele alla regola benedettina (“Oro et laboro, e soprattutto non parlo quando non è necessario”), non ci sarà bisogno, da parte di Meloni, di assegnare, alla sua intesa solidissima con Giorgetti, un valore diverso da quello che ha, e cioè una collaborazione che trova la sue efficienza nell’essenzialità delle comunicazioni decisive.
Il fatto, poi, che Giorgetti disinneschi preventivamente, con la sua ostentata prudenza draghiana sui conti, le possibili proteste che i parlamentari del Carroccio potrebbero inscenare sui provvedimenti economici più complicati (dal Superbonus in giù, passando per il Mes), a Palazzo Chigi viene visto come una specie di supremo alibi. Più politica, invece, è la funzione di Fedriga. O meglio: era. Era col presidente friulano, cioè, che Meloni ragionava dei possibili scantonamenti di Salvini, per ognuno ipotizzando una contromossa. “Come sarebbe tutto più facile con Massimiliano”, sospirava, la capa di FdI, quando i rapporti col leader leghista erano claudicanti. Mesi fa. Ora, pare, di tutto ciò non c’è bisogno. Perché se FI è recalcitrante, Salvini rinnova attestati di fiducia nei confronti della premier ogni volta, e non è cosa rara, che qualcuno dei suoi colonnelli viene a confidargli i suoi sfoghi. Forse col tempo funzionerà anche con Berlusconi. Forse davvero, come dice La Russa, il patriarca di Arcore e la ragazza della Garbatella troveranno la loro sintonia. Nel frattempo, però, la rete di sicurezza di Meloni resta attiva.