Il racconto
La sera andavamo a Kyiv, cartoline dal viaggio di Meloni. Sigarette slim e ansia large
Il dietro le quinte dell'importante visita della premier a Zelensky. Le mosse dello staff, lo zelo della Rai, il sogno americano e gli sguardi della presidente del Consiglio
Kyiv, dal nostro inviato.
Che ha detto Igor? “Via queste pistole, ci pensiamo noi”. La mattina che porterà la presidente del Consiglio a Kyiv ha un risveglio così. Si parla di armi, mica di Superbonus. Nella prima carrozza ci sono Giorgia Meloni e un pugno di eletti, nella seconda lo staff della premier, nella quarta i giornalisti embedded un po’ reietti (nuova categoria della stampa parlamentare), nella terza la sicurezza italiana, quella polacca e appunto Igor e i suoi fratelli. Barba sale e pepe, da hipster, questo omone sta qui per i servizi ucraini. Lo manda Zelensky, e vedi se non gli dai retta. E’ salito nella notte a Leopoli, in borghese, e con collana di pietre tonde al collo, in compagnia di quattro soldati armati fino alle gengive. C’è l’uomo che guarda passare i treni e la donna che alla fine è riuscita a salirci sopra. Il viaggio della premier rimarrà un concentrato di gravitas meloniana: nicotina e ansia da prestazione, serietà e tosse, cura maniacale delle cose da dire. E’ lei la capatreno. Sta qui da sola. Con il passo spedito. Una smorfia di emozione, ma anche con quella faccia che ti vorrebbe dire “ahó, avete visto l’underdog dov’è arrivata?”. Sono le 11.28 e 55 secondi del 21 febbraio 2023. A tre giorni dall’anniversario che ha cambiato il mondo, l’Italia c’è. E pure “Porta a Porta”, ovvio.
“Grazie per essere qui”. Subito dopo il mazzo di fiori delle autorità locali, la vera accoglienza sulla banchina della stazione di Pasazhyrsky arriva dall’inviato di Bruno Vespa: è un giornalista passato dalle famose testate del boss di Ostia Roberto Spada a quelle dei missili di Putin.
Ma insomma: che la missione diplomatica abbia inizio. Parola d’ordine di Palazzo Chigi per la presidente del Consiglio: parlare poco, il meno possibile con telecamere e taccuini, pensiamo alle cose importanti. Parole d’ordine di Palazzo Chigi alla stampa al seguito: boh, no, vediamo, ciccio, nun se po’ fa’, zio... solo perché sei tu.
E quindi mentre l’altoparlante della stazione risuona musica locale, che fa venire in mente per ignoranza e assonanza giovanile l’orchestra di Goran Bregovic, la frase-sineddoche da appuntare perché dà senso e racchiude molto, se non tutto, è la seguente: “Spero che questo viaggio possa aiutare anche gli italiani a capire meglio”, dice la presidente del Consiglio stretta in un cappotto nero. Ce l’ha con l’opinione pubblica, con Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, con i suoi elettori, con i tassisti, che l’adorano, ma che sulla guerra forse non la capiscono fino in fondo? Con tutti.
La vera delegazione italiana è compatta e reattiva, tipo la Mini Cooper grigia della premier. Meloni si è portata qui il suo navigatore: Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Programma che dentro Fratelli d’Italia chiamano “Fazzo bum bum”. E’ il Mogol, ma anche il Rodolfo Sonego di Meloni. Tra Lucio Battisti e Alberto Sordi. Il paroliere, l’autore. Sta qui – si maligna nella noia – perché è anche un grande patito di armi, buona mano da tiro a volo, per quanto possa servire davanti ai razzi. Di sicuro, pochi giorni fa prima di questa spedizione storica, Fazzolari ci aveva detto cose interessanti che torneranno utili. Anzi, a ripensarci suonano quasi come profetiche. Eccole: “La posizione di Berlusconi sull’Ucraina? Non è un problema agli occhi degli Usa, del deep state, dell’omino della Cia: non ci sono altri interlocutori affidabili al di fuori di Giorgia”. Il sottosegretario, profilo basso e consapevolezza del contesto per evitare gaffe, ha un berretto blu di lana da marines, giaccone a vento e maglione. Niente giacca, né cravatta come il cerimoniale o il corpo diplomatico guidato da Francesco Talò e dall’ambasciatore Pier Francesco Zazo. Sorge un dubbio: Fazzolari si è immedesimato in Volodymyr? Ed è subito vestivamo alla Zelensky.
In questa ipotetica Mini Cooper in trasferta entrano di diritto la storica portavoce ora consigliera per la comunicazione Giovanna Ianniello e Patrizia Scurti, l’“onnisegretaria”: scorta morale e affettiva, impossibile da separare anche nelle foto.
Portati sui van all’hotel Intercontinental, con davanti le due auto presidenziali blindate con bandierina tricolore, è il momento della sosta. Trenta minuti prima di partire per Bucha e Irpin, i borghi dei massacri russi dove uscirà fuori la spontaneità della premier: lacrime, volto contrito, parole definitive sul sostegno a Kyiv, fango, le foto dei corpi straziati dall’Armata russa. Prima però la delegazione italiana si rigenera un attimo. Quella governativa ha preso delle stanze come appoggio logistico: servono a darsi una rinfrescata come si deve. Magari una doccia. D’altronde sul treno partito dalla stazione polacca di Przemysl (dove Salvini venne deriso dal sindaco locale che gli tirò fuori la maglietta con la faccia di Putin) il viaggio non è stato dei più agevoli. Il generatore automatico di melonismo direbbe: “Qui è come l’Europa: non esistono treni di serie A e serie B!”.
Lunedì notte la premier atterrata da Varsavia alla base Nato di Rzesow, dopo la visita piena di colpi di tosse davanti all’amico e compagno conservatore Mateusz Morawiecki, si è trovata bloccata per un’ora causa Joe Biden. Che proprio quel giorno ha stravolto il programma per presentarsi a sorpresa da Zelensky: cucù. Un blitz mondiale che ha stravolto l’organizzazione nostrana. Con la speranza molto provinciale, e chissà quanto concreta, di una storica stretta di mano Meloni-Biden in Polonia, in una sorta di staffetta atlantica. Roba da leccarsi i baffi, ma che alla fine non è accaduta dal punto di vista iconografico. Tuttavia nella sostanza c’è stata, eccome.
La leader di Fratelli d’Italia alla fine rimane sul suo Airbus dove le cronache narrano di zaffate di fumo presidenziale ad alta quota (nonostante manchi il girato integrale anche questa volta). Trascorre un’ora e passa in attesa che la carovana a stelle e strisce lasci la zona in modalità freezata (significa che tutto viene bloccato). Niente saluto americano. E finalmente partenza in van verso la stazione ferroviaria al confine, quella di Salvini per intenderci. Primo incontro con Fazzolari infreddolito e poco loquace intorno alle due di notte. Perché questo ritardo, sottosegretario? “Dovevano rimettere a posto il treno dopo Biden”, risposta a labbra quasi serrate.
Perché da qui in poi si entrerà in un trip di super sicurezza, tensione, emozione, consapevolezza del viaggio e del luogo di destinazione. Meloni, fino a quel momento invisibile, viene avvistata davanti alla sua carrozza alle prese con una sigarettina, di quelle slim, che consuma con una certa foga. E’ un dato di cronaca a cui attaccarsi. Visto che poi nella notte si ritirerà nella sua cuccetta senza passare in rassegna le truppe. I cronisti che lo scorso giugno avevano fatto il medesimo viaggio, ma con Mario Draghi, raccontano l’emozione del treno Europa perché in quell’occasione salirono sulla locomotiva, in un tripudio di teste di cuoio e mitra, anche Olaf Scholz ed Emmanuel Macron. Si parla della famosa foto a tre, e dell’ex banchiere che passeggia nel treno augurando “buona notte e buon lavoro” ai presenti. Tuttavia quello era un altro tornante della storia, del governo e soprattutto della guerra. Questa volta si dorme senza eccessi di adrenalina, che comunque c’è. Per colpa di Biden tutto è posticipato, e il treno non arriverà in orario. Sono pur sempre le due notte e mancano settecento chilometri alla capitale (con doppio controllo dei passaporti di forze polacche e ucraine: ecco Igor) e con il personale del treno uscito da un film di Wes Anderson.
Lo sbarco a Kyiv del giorno a seguire diventa dunque una corsa. Si attraversa la città che vuole ostentare normalità con i McDonald’s aperti, affiancati da cavalli di frisia e carri armati. Meloni osserva dalla sua auto l’alternarsi lento di architettura tardo zarista e poi sovietica, case pastello e palazzoni che solo a Tor Bella Monaca.
A Bucha e Irpin ci sono le telecamere e iniziano le proteste per l’organizzazione. Tutti vogliono una battuta della premier dietro a questo presepe di morte e vergogna. Ci sono gli inviati del Tg2 e del Tg3. Il Tg1, a cui non toccava la trasferta per le regole aziendali della rotazione, ha ricevuto la deroga dall’ad Carlo Fuortes. Rainews24 ha l’inviato che sta qui da mesi, ma non il chigista. Idem Radio Rai che avrebbe dovuto mandare un’altra giornalista da Roma, poi bloccata, nonostante l’acquisto dei voli, per evitare l’effetto “gelati viale Mazzini”. Si è zelanti e con zelo si cerca di evitare polemiche senza fare sgarbi al governo. Dopo Bucha e Irpin si rientra in hotel.
Altra sosta. Ancora più breve. La hall è piena di soldati. I civili saranno sicuramente spie. E ci si nasconde anche per chiamare il giornale o la mamma, hai visto mai una parola fuori posto. Meloni è di nuovo in stanza. Il piatto forte prevede la visita a casa Zelensky, il palazzo presidenziale, quello entrato come se fosse una serie di Netflix in tutte le riprese video del mondo, con il presidente resistente che cammina di notte davanti a questo edificio bunker color carta da zucchero.
La premier pranza, alle 15 e 40, con il leader ucraino. Parlano di prospettive, di ricostruzione, di Expo2030, di appoggio incondizionato, economico ma soprattutto militare, di caccia. A giornalisti e operatori, appena entrati, vengono tolti cellulari e computer. Non rimane che guardare gli stucchi. Inizia la solita estenuante trattativa con lo staff di Palazzo Chigi per le domande da porre in conferenza stampa. Per la carta la fa il Corriere (è giustissima, e farà scaturire la polemica di giornata), per la tv il Tg1 (che nel servizio delle 20 ometterà dai titoli le parole di Zelensky su Berlusconi, rimandando tutto a un altro servizio dopo una decina di minuti in diretta da Montecitorio). Amen. Cose importanti: ecco Meloni e Zelensky, le spalle quasi appaiate. Entrambi compatti. La premier tossisce. Patrizia Scurti, come da copione, si muove per portarle una bottiglietta d’acqua. Il gesto viene visto di cattivo occhio dalle guardie presidenziali, con cui è sempre meglio non discutere, perché la segretaria d’Italia ha varcato uno spazio immaginario di sicurezza che deve essere sempre controllato. Si è avvicinata troppo al padrone di casa. Dopo l’ennesimo colpo di tosse sarà un cameriere a porgere un bicchiere d’acqua a Meloni. Sta parlando: perfetta e inequivocabile sulla guerra. Zelensky gradisce, assai. La chiama Giorgia e signora presidente. Il secondo titolo sono le parole del presidente ucraino sul Cav: dirompenti. La conferenza stampa finisce dopo un blackout in sala che toglie, in un secondo, dieci anni di vita agli ospiti. Viene diffusa questa raccomandazione: c’è un’ora di embargo prima di diffondere i video e le notizie della conferenza stampa. Siccome siamo italiani, tutto salta: Rainews parte con la diretta (“pensavamo un’ora dall’inizio della conferenza”) e poi tocca a Tgcom24. Tutti in hotel, ancora. Dove la premier concede un’intervista al Tg4 (è la rete per cui lavora adesso il compagno Andrea Giambruno). Tutto avviene nella massima segretezza. E si verrà sapere solo il giorno dopo. Intanto è di nuovo il momento di partire in treno verso la Polonia. Si dorme senza ansie. Solito spostamento e volo in direzione Roma. Meloni torna al posto di comando, con un’esposizione non banale e i soliti problemi casalinghi. Ieri, intanto, Igor è sceso di nuovo dal treno a Kyiv. Questa volta c’era Pedro Sanchez. Per lui questa storia è una piccola routine.