Carlo De Benedetti (Ansa)

La lettera

“Caro Carlo, sulla scuola, i ricchi e le diseguaglianze non sembriamo fratelli”

Franco Debenedetti

Franco Debenedetti a proposito di “Radicalità” di Carlo De Benedetti: sì, c'è bisogno di scelte decise, ma si deve anche rimettere l'istruzione in testa a un programma di riforme. Con la giusta fiducia nell'Italia e negli italiani

Anticipandomi l’invio del suo ultimo libro, mio fratello tenne a premunirsi, avvertendomi che non sarei stato d’accordo con quanto aveva scritto. Ma è lui a ricordare che in famiglia ero noto come un bastian contrario: e quindi proprio qui lo smentisco. Condivido infatti, prima di tutto, il titolo: in quel “radicalità”, rosso al centro della copertina, riconosco il suo carattere e concordo che sia l’approccio necessario per attuare ciò di cui ha bisogno questo paese. Senza dover andare fino a pagina 103 per trovare “non credo, sotto alcuna forma, alle imprese di stato e non possono essere i governi a presidiare l’innovazione”, frase che ovviamente condivido in toto. Non sono d’accordo invece su quello che non ha scritto, cioè mettere la scuola in testa al programma di riforme. Che i risultati del nostro sistema educativo, confrontati a quelli di altri stati, siano imbarazzanti, è noto; noto che la scuola è il più sicuro strumento per favorire la crescita, e con quella abbattere un po’ per volta il nostro 156 per cento di debito in rapporto al pil. e per attivare l’ascensore sociale. Ma la nostra scuola, renitente a giudicare, rifiuta di essere giudicata: hanno messo la parola “merito” nel nome del dicastero della Pubblica istruzione, ma per superare le reazioni degli insegnanti e dei loro sindacati al  solo nominare la prospettiva di introdurre criteri di valutazione del merito, sarà necessario mobilitare tutta la radicalità disponibile. 

 

Questa parola Carlo De Benedetti la usa per indicare non la qualità delle politiche necessaria per realizzarle, ma la scelta degli obbiettivi da intestarsi. Che per lui sono due: la salvezza del pianeta e la dignità del lavoro. Quanto al primo, è ovvio che esso richiede l’impegno del mondo intero: la proposta di un’Unione europea dell’energia serve a dare prospettive più prossime e quindi più credibili. Lo è l’obbiettivo di rendere l’Italia elettricamente indipendente grazie alle energie rinnovabili? Saranno necessarie innovazioni tecnologiche, incominciando sull’accumulo di energia, che non sono ancora in vista; c’è poi contraddizione tra puntare sul fotovoltaico e impegnarsi a non consumare neanche un metro quadro in più di terreno. In ogni caso l’indipendenza a cui mira può valere solo per i consumi già elettrificati, come i treni, o in via di esserlo, come le auto; non ci sono invece sono soluzioni in vista per i trasporti pesanti – camion, aerei, navi portacontainer. C’è poi il problema di ridurre le emissioni degli edifici, con il famoso “cappotto”: Carlo non nomina né i fasti (vantati) né i nefasti (che dovremo pagare) del “110 per cento”, critica invece, perché carente di “radicalità”, “nato vecchio”, il Pnrr, e conclude: “Tassateci tutti, tassateci subito. […] Un giusto sistema dovrebbe portare a un dimezzamento del numero di miliardari del pianeta entro il 2030,  scopo finale abolire completamente i miliardari”. 

 

Personalmente rabbrividisco ogni volta che sento parlare di “scopo finale”, ma rassicuro tutti: garantisco che mio fratello non pensava a “quello”. Pensa a Piketty, secondo il quale una élite del 10 per cento di ricchi inquinatori è responsabile per quasi il 50 per cento delle emissioni di gas serra. Col che ci porta al secondo obbiettivo della sua agenda: “Progressivo aumento dei compensi, introduzione del salario minimo, parità retributiva uomo-donna: misure da sempre presenti nell’agenda di sinistra, ma per le quali serve il coraggio di un cambiamento radicale nel modo di pensare il lavoro”. Più lavoro, meno diseguaglianze.

 

Questo delle diseguaglianze è un tema che attraversa tutto il libro, e che pensava sarebbe stato principale motivo di disaccordo. E con ragione: per me le diseguaglianze, tra prodotti e tra prezzi, sono ciò che mette in moto il mercato. In un suo libro di quarant’anni fa, Robert Nozick ha dimostrato che le diseguaglianze si producono autonomamente, quale che sia l’assetto “distributivo” di una società. Immaginiamo che quella società sia perfettamente egualitaria: se lasciamo alle persone la libertà di comprare e vendere ciò che desiderano (nel caso di Nozick, i biglietti per andare a vedere una partita di basket in cui gioca Wilt Chamberlain, per i più giovani diciamo LeBron James), qualcuno finirà inevitabilmente per guadagnare più di altri, perché questi altri lo scelgono: scelgono i prodotti o i servizi che realizza. Rawls, il santo patrono degli egualitari moderati, pensava che per appianare le diseguaglianze ingiuste bastasse incidere sulle regole del gioco, per così dire una volta e per sempre. Nozick gli ha dimostrato che non è possibile: se vuoi l’eguaglianza devi redistribuire di continuo, di continuo interferire con le decisioni delle persone. La cosa sta bene ai Piketty della situazione, che infatti vogliono tasse, progressive, patrimoniali, di successione. A chi vanno i proventi delle tasse? Ad amministrazioni che gestiscono scuole, ospedali, tribunali in modi, nel caso nostro, universalmente criticati, incapaci perfino di evitare massicce evasioni ed elusioni fiscali. Non c’è dubbio che quelle ricchezze, nelle mani di chi le ha prodotte, avrebbero dato risultati migliori. 

 

Deirdre McCloskey ha calcolato che se provassimo a redistribuire la quota di reddito che fa capo all’1 per cento dei contribuenti americani più ricchi – che nel 2010 era pari a circa il 22 per cento del reddito nazionale – tutti sarebbero più ricchi nella misura di 22/99, cioè circa del 20 per cento. Ma le redistribuzioni una tantum per aiutare i poveri sono di due ordini di grandezza inferiori al 2900 per cento,  l’arricchimento derivato dalla maggiore produttività a partire dall’inizio dell’Ottocento. Ai poveri conviene di più vivere in un’economia più produttiva. Il libro di Carlo è ricco di spunti e di suggestioni. Soprattutto è animato da una “radicalità” di fiducia, che alcuni troveranno eccessiva, ma che io ben conosco. Fiducia negli italiani, capaci se costretti a compiere imprese impensabili. Fiducia nell’Europa, perchè “siamo ricchi, siamo vecchi, siamo belli. È partendo dall’Italia che l’Europa può proporre al mondo un diverso modello di sviluppo e di futuro, perché noi abbiamo le qualità umane per assumerci questo compito e portarlo a termine”.