Giorgia Meloni alla prova della Stabilità europea
Errori da evitare, tabù da archiviare. Può il governo italiano giocare un ruolo da protagonista nella riforma del patto di stabilità? Una guida per la premier, per andare oltre la strategia dell’immobilismo
Dopo mesi di acceso dibattito, a onor del vero vasto all’interno delle cancellerie europee, ma mai diventato vero terreno di scontro politico, lo scorso novembre la Commissione europea ha avanzato una proposta di riforma del Patto di stabilità e crescita, l’insieme di regole relative alle politiche di bilancio dei paesi membri.
Tocca ora agli stati raggiungere un accordo con la Commissione entro il prossimo gennaio, in modo da arrivare a un rinnovato Patto che, lo ricordiamo, è stato sospeso nel marzo 2020 per effetto della General Escape Clause, causa pandemia, e che sarà ripristinato nel 2024. Ce la faranno i nostri eroi? Dati i tempi bui, c’è da dubitarne. Anche se in questi casi ci soccorre sempre l’intramontabile Jean Monnet: “L’Europe se fera dans le crises et elle sera la somme de solutions apportées à ces crises”.
La bozza di riforma del Patto contiene modifiche importanti: innanzitutto, il braccio preventivo è sostituito da un piano finanziario pluriennale, specifico per paese e basato su una analisi di sostenibilità del debito (Dsa). Le soglie del deficit al 3 per cento e del debito al 60 per cento del pil rimangono ma ai paesi che non rispettano la seconda sono richiesti piani di aggiustamento più specifici e incisivi.
Il nuovo braccio preventivo prevede più fasi. In un primo momento, i debiti degli stati sono classificati in tre categorie di rischio (modesto, moderato, sostanziale), in base alle risultanze della Dsa. Ai paesi con rischio medio o alto, la Commissione propone un piano di aggiustamento pluriennale basato sulla traiettoria della “spesa primaria netta”, calcolata al netto degli interessi sul debito e di alcune spese collegate al ciclo economico (ad esempio, i sussidi di disoccupazione), con un trattamento particolare per gli investimenti. La spesa è inoltre depurata dalle “variazioni discrezionali delle entrate”. Il piano ha l’obiettivo di garantire che il debito si trovi su una traiettoria calante in maniera “plausibile e continua”.
La regola, tanto criticata, della riduzione annua del debito pari all’1/20 della percentuale eccedente la soglia del 60 per cento introdotta dal Fiscal Compact viene abbandonata, così come vengono abbandonate grandezze come l’Mto, il deficit strutturale e il pil potenziale, ritenute non osservabili e di difficile misurazione, sostituite da una unica variabile, la spesa primaria netta, trasparente e misurabile. Agli stati non si impongono più correzioni annuali, ma si stabiliscono obiettivi flessibili di medio termine, che lasciano loro più tempo e spazio di bilancio per correggere gli squilibri. I paesi possono presentare una controproposta al piano della Commissione, con la quale possono richiedere un’estensione del periodo di aggiustamento fino a un massimo di tre anni, predisponendo un programma di riforme e investimenti finalizzati alla creazione di beni pubblici europei.
Infine, il Consiglio europeo, sentita la Commissione, approva o respinge il piano proposto dal paese. In caso di esito negativo, il piano proposto inizialmente dalla Commissione diventa automaticamente il testo di riferimento. In contrasto con le regole attuali che impongono aggiustamenti standardizzati e di breve termine, la proposta della Commissione responsabilizza dunque gli stati nelle loro scelte di finanza pubblica.
Le modifiche del braccio correttivo sono meno significative ma non per questo secondarie. Le sanzioni monetarie sono diminuite, per renderle più credibili. A queste si aggiungono quelle reputazionali (il ministro dell’Economia del paese inadempiente può essere chiamato a dare spiegazioni al Consiglio), e si esplicita il potenziale blocco dei finanziamenti europei (al momento, fondi strutturali e Pnrr).
Non sono mancate le critiche. In primo luogo, a livello tecnico, che la traiettoria calante del debito sia determinata da una Dsa, metodologia basata su una difficile stima dell’andamento di alcune variabili macroeconomiche – come i rendimenti sul debito e il tasso di crescita del pil – e sulle previsioni stesse della Commissione, che diventerebbe così giudice unico della sostenibilità del debito. L’utilizzo della Dsa è stato criticato dalla Banca d’Italia mentre è stato ricevuto più favorevolmente da paesi come la Germania.
Una seconda critica politica attiene invece al ruolo centrale della Commissione. E’ la Commissione, infatti, ad avanzare il piano di aggiustamento e a dare un parere al Consiglio sulla eventuale contro-offerta degli stati; ed è sempre la Commissione a raccomandarne eventuali modifiche e a monitorarne il progresso. In assenza di un accordo, è la sua proposta a dover essere adottata. E’ questo un allontanamento dalla filosofia che governa i Pnrr, che attribuisce un forte potere ai governi ed è una scelta in controtendenza con le raccomandazioni di aumentare il perimetro d’azione delle istituzioni di bilancio nazionali (Ifi), per l’Italia l’Ufficio parlamentare di bilancio. Su questi dettagli vi sono importanti margini di negoziato che il governo italiano può utilizzare.
Come era prevedibile, la proposta della Commissione ha diviso nuovamente i paesi del Nord da quelli del Sud. In particolare, la posizione della Banca d’Italia è particolarmente critica nei confronti dell’introduzione di una Dsa come base per elaborare il piano di rientro, in quanto ritenuta troppo aleatoria e penalizzante per i paesi del Club Med.
Per il governo italiano si è espresso il ministro Giorgetti, che considera necessario affiancare la riforma della governance a un piano industriale europeo, al fine di incentivare gli investimenti nella transizione verde, digitale, sicurezza e difesa. All’Ecofin del 14 febbraio, Giorgetti ha ricordato la necessità che il dibattito sulla revisione della governance tenga in considerazione anche quanto condiviso dai leader europei in relazione al Piano industriale della Commissione in risposta all’Inflaction Reduction Act statunitense (Green Deal Industrial Plan), non ultima l’importanza di garantire un accesso agevolato e più flessibile ai fondi europei e la necessità di sostenere un adeguato livello di investimenti strategici pubblici e privati. L’approccio diversificato alla definizione dei Piani è ritenuto condivisibile, a patto di non minare il coordinamento di bilancio a livello europeo. Il percorso di consolidamento proposto dalla Commissione non deve comprimere la titolarità nazionale della programmazione di bilancio. Infine, in considerazione della congiuntura geopolitica, anche gli investimenti sulla sicurezza e difesa dovrebbero essere incentivati.
Le posizioni nazionali sulla riforma del Patto sono ancora molto frastagliate. Il tema tornerà all’attenzione dell’Ecofin del 14 marzo, con la probabile adozione di Conclusioni ad hoc, che – pur senza delineare ancora un quadro complessivo d’intesa – individuano una decina di “punti di caduta” tecnici, in modo da consentire alla Commissione di presentare comunque le sue proposte legislative. A un mese dal prossimo Consiglio europeo (23-24 marzo) è difficile ipotizzare il raggiungimento di un consenso esteso ai temi più divisivi, come i criteri alla base della Dsa e il suo legame con la preparazione dei singoli Piani di riduzione del debito. E’ pertanto verosimile che il tema continuerà a essere dibattuto durante la presidenza spagnola nel forgiare un consenso a Ventisette e una convergenza di posizioni con il Parlamento europeo.
Riassunti le posizioni in campo e il calendario degli eventi, è il caso di discutere le priorità sulle quali Italia e Ue dovrebbero focalizzarsi, cosa che ho avuto modo di discutere già in numerosi articoli (il Foglio del 25 aprile e del 24 agosto 2022). A mio parere, le nuove regole dovrebbero orientarsi su due assi: sostenibilità delle finanze pubbliche e riduzione del debito, da una parte, e crescita di lungo periodo dall’altra, nella consapevolezza che queste due grandezze sono fondamentali per la robustezza della nostra economia e per la reputazione nei confronti dei mercati.
Ho sostenuto più volte che la riforma del Patto debba idealmente collocarsi all’interno di un approccio “olistico” di riforma della governance, che preveda la creazione di un Next Generation Eu 2 per finanziare i grandi beni pubblici (ordinari e straordinari) di cui l’Europa ha oggi bisogno: difesa, cybersicurezza, energia e grandi infrastrutture, cui aggiungere la ricostruzione dell’Ucraina e l’esecuzione del Compact with Africa, il piano per la co-operazione e lo sviluppo con i paesi africani ideato da Angela Merkel, sovrapponibile al Piano Mattei recentemente presentato dal governo italiano, la mutualizzazione dei debiti europei (il “momento Hamilton”), da realizzare tramite l’emissione di eurobond, la creazione di un ministro delle Finanze unico e, infine, la sostituzione dei Pnrr nazionali con un unico Pnrr europeo, programmato e attuato a livello centralizzato, per creare un contraltare unico e coordinato di politica di bilancio che possa dialogare allo stesso livello con la politica monetaria della Bce, in un policy mix strutturalmente coerente.
E’ peraltro evidente che, nonostante quanto descritto rappresenti il first best, politicamente siamo ancora molto lontani dalla sua realizzazione. La domanda da farsi, allora, è se e in che misura le nuove regole possano essere combinate per realizzare una soluzione di second best, che ci consenta di raggiungere alcuni obiettivi minimi sui due assi strategici della sostenibilità delle finanze pubbliche e della crescita economica. Sarebbe, infatti, inutile sostituire le vecchie regole, incomprensibili, inapplicabili e mai rispettate fino in fondo, con nuove regole che non consentano sviluppo, e che per questo gli stati continuerebbero a non rispettare, a meno di introdurre draconiane punizioni che, per motivazioni politiche, non verrebbero mai realmente adottate. Le nuove regole avrebbero senso soltanto se le norme destinate alla stabilizzazione delle finanze pubbliche risultassero compatibile con la crescita nazionale. Senza risorse finanziarie non ci possono essere investimenti e crescita. E senza la seconda, le nuove regole sarebbero sterili e politicamente inapplicabili. E, allora, tanto varrebbe restare nell’ambiguità ipocrita di quelle attuali.
Come fare, dunque, a coordinare le nuove regole con la necessità di finanziare beni pubblici europei, per i quali è del tutto evidente che le attuali dimensioni del bilancio comunitario (l’ultimo bilancio 2021-2027 prevede impegni pari a soltanto 1.214,1 miliardi di euro, a fronte di un pil 2021 pari a 14.500 miliardi!) non sono affatto sufficienti? Questo è il vero punto sul quale anche il governo dovrebbe puntare nei prossimi negoziati.
Esistono, a mio modo di vedere, due correttivi importanti da apportare alla proposta della Commissione. Innanzitutto, sarebbe importante inserire nella Dsa una “condizionalità positiva” sulla attuazione dei Pnrr. Per definizione, infatti, un paese che porta a termine il Piano migliora la propria “resilienza”, ossia la crescita di lungo periodo. Non sembrano, dunque, avere molto senso alcune analisi circolate dalla Commissione su uno scenario a “politiche invariate”, che non tenga conto delle riforme e degli investimenti (e dei loro effetti stimati sulla crescita) su cui i paesi si sono già impegnati. Piuttosto, dovrebbero essere sanzionate le deviazioni dai Pnrr, in termini di interruzione dei pagamenti e attivazione di meccanismi correttivi nella governance di finanza pubblica.
In secondo luogo, per i paesi ad alto debito andrebbe sfruttata appieno la possibilità di estendere da 4 a 7 anni il percorso di rientro, in cambio del loro impegno a realizzare maggiori riforme e investimenti. Sostanzialmente, si tratterebbe di estendere da oggi al 2030 gli impegni già presi nei Pnrr nazionali, ampliandoli alle risorse già destinate agli stati, dunque ai fondi per la coesione (per l’Italia, una partita che “vale” altri 70 miliardi), concordando con Bruxelles la continuazione dell’insieme coerente di riforme e investimenti già negoziato nel programma Next Generation Ue. In sintesi, si tratta di dare continuità alla pianificazione operativa pluriennale avviata con il Ngue, in una prospettiva strutturale di maggior centralizzazione a livello comunitario della programmazione ed esecuzione dei progetti.
Coordinando i programmi nazionali di rientro con l’opportuna flessibilità concessa dalla Ue in cambio di riforme e investimenti e con una modulazione delle singole scelte di investimento nazionale che convergano verso beni pubblici europei, la Commissione creerebbe un coordinamento stretto delle politiche nazionali, risolvendo così le ben note inefficienze dovute all’assenza di economie di scala nella produzione dei beni e servizi europei e alla presenza di sub-addittività nelle relative funzioni di costo.
Infine, l’esperienza estremamente positiva del Sure dovrebbe essere resa permanente, da misura di protezione sociale temporanea quale attualmente è. La creazione di uno schema di assicurazione europeo contro la disoccupazione potrebbe diventare l’esempio di una politica economica di livello comunitario. Per far questo, però, occorrerebbe trasferire la competenza della materia a livello comunitario, attraverso una modifica dei trattati. Gli stati finanzierebbero la spesa legata alla protezione sociale di tutti i cittadini europei, veicolata tramite il Sure, attraverso un aumento del trasferimento del gettito erariale nazionale (ad esempio quello dell’Iva) al bilancio comunitario, che aumenterebbe così la sua capacità di bilancio, in assenza della possibilità alternativa, in questo momento difficilmente praticabile per motivi politici, di finanziarla tramite l’emissione di debito comune.
Tutto questo è facile a dirsi, estremamente difficile a realizzarsi. Ma, come abbiamo visto, ci si può sempre appellare al paradosso di Jean Monnet, che non solo l’Europa ce la farà ma che, nel frattempo, mentre cambia la sua governance economica e finanziaria, avrà anche la forza di vincere la guerra.