tra roma e bruxelles

Pregi e limiti delle alleanze variabili di Meloni in Europa

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Per ottenere risultati nell’Ue bisogna costruire solidi rapporti e soprattutto essere pronti a fare concessioni su alcuni fronti per incassare il supporto sulle partite che più contano. Occorre guardare all'equilibrio complessivo e capire dove stanno i nostri interessi di lungo termine

C’era una volta l’asse franco-tedesco. Per lungo tempo tutte le decisioni importanti in Europa sono maturate tra Parigi e Berlino: Schuman e Adenauer hanno dato vita alla Ceca, riavviando così la cooperazione in Europa dopo la guerra; Mitterrand e Kohl hanno fatto nascere l’Unione economica e monetaria; Sarkozy e Merkel hanno svolto un ruolo decisivo nella conclusione del Trattato di Lisbona. Oggi non è più così. Il presidente francese Macron è rimasto indebolito dalla perdita della maggioranza parlamentare e il cancelliere tedesco Scholz, al di là dello storico annuncio della Zeitenwende in politica estera, è apparso esitante in molti delicati frangenti di politica economica e troppo attento ai riflessi interni per esercitare una vera leadership nell’Unione.

Anche le tradizionali contrapposizioni sull’asse est-ovest e nord-sud, che hanno caratterizzato la storia dell’integrazione europea, sembrano ormai superate. Fino a qualche anno fa, per esempio, i paesi dell’est Europa formavano un gruppo coeso (il cosiddetto gruppo di Visegrad) che si opponeva in maniera decisa al nucleo tradizionale degli stati fondatori non solo per quanto attiene al rispetto dello stato di diritto, ma anche in questioni di politica economica ed estera. L’invasione russa in Ucraina ha rimescolato le carte e spesso Polonia e Ungheria si sono trovate su fronti diversi. E perfino i contrasti tra stati “frugali” del nord e le cicale del sud sembrano ormai superati. Negli ultimi anni Spagna e Italia non sono più sempre percepite come gli anelli deboli della catena (specie la Spagna, per la verità). 

In questo scenario, più confuso, si sono aperte per tutti molte opportunità per creare alleanze diverse sulle varie partite in corso. Nelle scorse settimane, nel Consiglio europeo si è realizzato un imprevedibile asse Meloni-Rutte (Il Foglio, 31 gennaio) per contrastare le pressioni francesi e tedesche per una risposta muscolare all’Inflation reduction act (Ira) di Biden che avrebbe comportato un “liberi tutti” in materia di aiuti di stato. Ciò andrebbe a scapito soprattutto dei paesi con limitata capacità fiscale e soprattutto metterebbe in crisi il mercato interno, una delle principali realizzazioni dell’Unione di cui ricorre proprio quest’anno il trentennale. Sulla partita delle emissioni di auto e furgoni, invece, il nostro governo è riuscito a stanare la Germania e a riaprire un dossier che sembrava chiuso come il bando al motore endotermico dal 2035. E, infine, è dei giorni scorsi una dichiarazione congiunta con la Francia sulla nuova politica industriale europea e sulla transizione digitale.

Questa disinvoltura, da un lato, è positiva perché dimostra che Giorgia Meloni sta giocando le proprie partite in Europa e non contro l’Europa, come molti temevano prima del suo insediamento. Ma, dall’altro lato, sembrano scelte dettate più da un legittimo opportunismo che da una visione complessiva delle nostre priorità e delle alleanze necessarie per perseguirle. Per ottenere dei risultati nell’Ue, però, bisogna costruire solidi rapporti e soprattutto essere pronti a fare concessioni su taluni fronti per incassare poi il supporto sulle partite che più contano: in sostanza, non si tratta di giocare in modo disinvolto sui singoli tavoli come se non ci fosse relazione tra l’uno e l’altro. Si tratta di guardare i vari tavoli nel loro equilibrio complessivo. E capire dove stanno i nostri interessi di lungo termine. 

Tra le questioni di politica economica di cui si dibatte in questo momento, quella forse più cruciale per il nostro paese riguarda la governance economica. Sulla revisione del patto di stabilità si è trovato in questi giorni un accordo di massima, anche se non sono pochi i dettagli da definire in vista dell’Ecofin previsto per la settimana prossima e poi del Consiglio europeo del 23-24 marzo (si veda David Carretta sul Foglio dell’8 marzo). Il governo italiano si è infilato in corsa in questo dibattito, ed è riuscito a tenere la barra dritta sulle nostre priorità. Tuttavia, la partita non si chiude con la presentazione delle nuove proposte legislative. Il diavolo, si sa, è nei dettagli. 

Più in generale, è importante approfittare di questa inedita situazione: il declino delle tradizionali leadership, la Brexit e il succedersi di molteplici crisi di diversa natura (pandemia, guerra, energia e inflazione) rendono possibile oggi un generale rimescolamento di alleanze. Questa fase inevitabilmente finirà per risolversi in un nuovo equilibrio. Chi sarà nella cabina di regia allora influenzerà le scelte nel prossimo decennio. Le partite per noi cruciali sono tante: dalla possibile revisione dei Trattati alla creazione di una capacità fiscale dell’Unione, dall’allargamento nei Balcani alle politiche rivolte a Sud (Mediterraneo e Africa), ecc. Per trovarci al posto giusto nella “nuova normalità” dobbiamo fin d’ora stabilire alleanze solide, avendo ben chiaro cosa offrire e chiedere, e rafforzare la nostra credibilità in tutte le sedi europee. 

La logica delle geometrie variabili va bene per ottenere dei risultati di breve termine, ma la partita vera riguarda il ridisegno delle regole dell’Unione. Per fare veramente la differenza, serve trovare un centro di gravità permanente.  
 

Di più su questi argomenti: