Perché la conferenza per l'Ucraina a Roma sta diventando un mezzo pasticcio per Meloni
Doveva essere un summit internazionale, col patrocinio europeo, per rilanciare l'immagina della premier in Ue. Invece sarà un bilaterale. Assente Zelensky, verrà il primo ministro di Kyiv. L'attivismo della Farnesina e il cortocircuito a Bruxelles. La sfida con Macron che finisce in nulla
L’importanza dell’evento, come fanno notare alla Farnesina, resta tutta. E ci mancherebbe. Semmai, sono le aspettative che quell’evento si portava dietro a essere ridimensionate, settimana dopo settimana, e con esse pure le ambizioni, forse le velleità, del governo italiano di giocare un ruolo di primo piano sul fronte geopolitico. E così, in un affaire che, nel silenzio delle trattative riservate è scaduto un po’ nel pasticcio diplomatico, la conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina prevista a Roma per il 26 e 27 aprile s’è sgonfiata come una torta lievitata male. Per cui, dopo sporadici tentativi di allargare l’orizzonte del summit, i consiglieri di Volodymyr Zelensky hanno deciso che è meglio considerare quello fine aprile come un incontro bilaterale. Che non è poca roba; ma è meno di quanto Giorgia Meloni sperasse.
L’idea iniziale, in effetti, era quella di dare alla conferenza una caratura quantomeno europea. La presidente del Consiglio, non a caso, l’annuncio l’aveva dato il 21 febbraio scorso, con l’enfasi del caso, direttamente dal Palazzo Mariinskij, a Kyiv, al termine del suo incontro col presidente ucraino. “L’Italia lavora a una conferenza per la ricostruzione da tenersi in aprile”. Ci lavorava, e da tempo, Adolfo Urso. Che già a metà gennaio era andato a Kyiv – primo esponente del governo sovranista – insieme al presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, e al consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Francesco Talò. Era stato quello il primo passo ufficiale.
Poi, d’intesa con Antonio Tajani, al ministero delle Imprese hanno tentato di dare un prestigio maggiore all’evento. Di lì, chissà se su sollecitazione della stessa premier o nell’ansia di mostrarsi più zelanti del dovuto agli occhi della capa, è partito un lavorio diplomatico per certi versi alacre, per altri assai poco coordinato, che ha portato la Farnesina a contattare anche altre cancellerie, e a cercare una sorta di patrocinio europeo. E non è un caso se anche agli uffici della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sono arrivati dei promemoria che erano quasi un invito. L’idea, insomma, era quella di mostrare come Meloni, l’underdog del Vecchio continente, potesse far valere il suo buon rapporto con Zelensky e intestarsi la titolarità di una trattativa, quella sulla ricostruzione dell’Ucraina, che sarà centrale nelle dinamiche europee dei prossimi anni. Il tutto, peraltro, con quel brivido di baldanza che sempre accompagna i progetti dei patrioti, e li vivifica, e li trasfigura, quando s’intravede la possibilità di mettere nel sacco quell’infido di Emmanuel Macron che coltiva eguali aspirazioni di primazia europea sul fronte ucraino e che non a caso aveva escluso Meloni dalla cena all’Eliseo con Zelensky e Olaf Scholz. E forse proprio per non farsi trovare impreparati, e anzi per anticipare le mosse del nemico d’Oltralpe, ai vertici di FdI hanno deciso che era il caso di darsi, pure loro, una spruzzata di grandeur. Di lì i contatti con le nostre ambasciate in giro per l’Europa, di lì un attivismo sottotraccia che però ha finito per creare qualche cortocircuito a Bruxelles, come è stato poi lamentato dai nostri rappresentanti diplomatici di stanza lassù.
Ed è qui, dunque, che le presunte prove di forza dei vari paesi europei paiono risolversi in una generale debolezza dell’Unione, se è vero che a Kyiv hanno convenuto che non ci fosse ragione di tutto questo affanno, italiano e non solo, per accaparrarsi la paternità di un’iniziativa che è già stata assegnata: e assegnata, per la seconda volta in due anni, fuori dai confini dell’Ue. Perché la vera conferenza internazionale per la ricostruzione in Ucraina, dopo la prima edizione svoltasi a Lugano, in Svizzera, nel luglio del 2022, si terrà quest’anno a Londra, il 21 e 22 giugno. Con buona pace delle pretenziose manovre di Roma, Parigi o Berlino.
Quello italiano, invece, sarà appunto un vertice bilaterale. Importante, beninteso: perché l’importante, come dicono ora a Palazzo Chigi col tono di chi è costretto a ridimensionare le aspettative, è “essere seduti al tavolo, e non importa se la conferenza sarà europea oppure no, non è una gara a chi arriva per primi”. Si discuterà di agricoltura e di ferrovie: i produttori italiani di trattori hanno grosse prospettive di investimento, in un paese che vuole rilanciare, meccanizzandola, la propria industria del grano; e lo scartamento dei binari ucraini, in gran parte ancora di matrice sovietica, andrà uniformato a quello europeo. E poi ponti, scuole, ospedali. E poi il settore dell’aerospazio, che già in passato ha visto la presenza di Avio in Crimea e non solo.
Non ci sarà Zelensky. A rappresentare il governo di Kyiv, a quanto pare, arriverà a Roma Denys Shmyhal, il primo ministro ucraino. Con lui, se le incombenze della guerra lo consentiranno, potrebbe venire anche Oleksandr Kubrakov, ministro delle Infrastrutture con deleghe per la ricostruzione del paese. Quanto all’internazionalità, al momento l’unico intervento che la garantirà è quello, previsto, della Banca europea per la Ricostruzione, che d’altronde proprio per favorire lo sviluppo nei paesi dell’ex Urss è nata. A presiederla è una francese, Odile Renaud-Basso, cresciuta nel vivaio di Bercy prima di essere promossa al vertice del Tesoro quando ministro dell’Economia era un certo Macron. E tocca sperare che questo, per i patrioti italiani, non costituisca un problema.