Illusioni e delusioni

Ecco i dossier su cui gli alleati di Meloni frenano e le promesse elettorali scricchiolano

Stefano Cingolani

Immigrazione, fisco, giustizia. Palazzo Chigi spiazza tutti ma il treno dei desideri al contrario va. L’ombra lunga di Draghi sul governo. Un’indagine

La locomotiva s’era mossa in anticipo ed era giunta prima del previsto alla stazione Vittoria. Tutto liscio, senza intoppi. Non si poteva più attendere, i vagoni erano stracolmi di gente ansiosa di arrivare, nemmeno fosse un treno indiano e ciascuno portava valigie straripanti di bisogni, di voglie, di aspirazioni e speranze. Vittoria era solo la prima, ma decisiva tappa di un viaggio in cui il convoglio dei desideri si sarebbe trasformato nella Freccia Azzurra della nuova Italia. Ma ben presto aveva preso il passo della tradotta, troppi macigni bloccavano i binari, tanto che i macchinisti avevano dovuto chiamare a consulto il vecchio ferroviere, il quale sapeva come funziona il quadro di comando che ormai non è più soltanto domestico. Un tempo si diceva che gli elettori scelgono in base ai loro interessi materiali e immediati: tasse, lavoro, pensioni, consumi, un universo dominato dal calcolo di costi e benefici individuali. Il mondo piatto, il tramonto degli ideali, liberté, fraternitè, egualité alle ortiche insieme ai libri della storia come noi l’avevamo conosciuta nei secoli scorsi, tutto finito sotto le macerie del muro di Berlino. Insomma quel che è stato detto e scritto dal 1989 fino a un anno fa quando le truppe dello zar Vladimir II hanno violato l’Ucraina che aveva dato i natali a Vladimir I detto il santo. Dove va il treno dei desideri nelle mani forti, ma ancora inesperte di Giorgia Meloni? Può andare all’incontrario come in “Azzurro”, la canzone scritta da Paolo Conte e resa famose da Adriano Celentano?

 

Il primo desiderio, nel nuovo terrificante scenario geopolitico, è trovare lo spazio vitale per un paese (come paleo democristiani e post comunisti insistono a chiamare l’Italia) che diventa Nazione. Con chi stare e che fare determinerà la storia quanto meno dell’intero decennio, forse ancora più a lungo. Lanciandosi in una piroetta degna di Isadora Duncan, il capo del governo sceglie. La politica estera non era stata al centro della sua battaglia durante la lunga traversata all’opposizione, se non per accodarsi alle querule lamentele contro il superstato europeo che sottrae sovranità ai popoli. “L’Europa delle nazioni” è lo slogan dominante e su questo Giorgia resta Giorgia, ma la Nato adesso prende il primo posto. Atlantismo pieno e puro. Gli Stati Uniti sopra tutto e tutti, la nazione americana come baluardo della stessa nazione italiana. Silvio Berlusconi rumoreggia, si contorce, sbotta, elenca i peccati capitali della donna che “non è ricattabile”, conclude il suo velenoso ritratto con un gran “vaffa”, si scusa con l’amico Putin? Se ne farà una ragione, senza “la sottoscritta” starebbe sulla panchina dei pensionati, non sullo scranno senatoriale. Matteo Salvini non capisce se gli conviene stracciare il patto con il partito putiniano o lasciarlo a futura memoria? Problemi suoi, ha preso la metà dei voti di Giorgia. Poi via a karaokare come amici al bar, ma a Palazzo Chigi è tutta un’altra storia. 

  

La virata atlantista ha spiazzato tutti, tranne Mario Draghi e Sergio Mattarella che, secondo voci fuori scena, hanno esercitato la loro moral suasion. Il Pd è rimasto con un palmo di naso e non ha saputo che dire non avendo il coraggio di apprezzare. Giuseppe Conte spera di trarre vantaggio dalla sgusciante arte levantina, occupando lo spazio putinista con la voce alta e chioccia di Marco Travaglio. Salvini e Berlusconi sono costretti a sussurrare, tra il lusco e il brusco. Giorgia non molla. Il viaggio a Kyiv ha indispettito gli alleati, con il capo leghista che non nasconde la propria irritazione e intanto prepara le insidie in Parlamento dove si fa strada il pacifismo peloso che unifica le estreme. Le armi non bastano, ha ragione il Papa, resteremo noi senza aerei né munizioni, quanto ancora dovremo spendere per “il signor Zelensky”, in fondo la Russia ha le sue ragioni, passeremo l’inverno all’addiaccio, la crisi del gas provocherà una recessione gravissima, le sanzioni colpiscono noi, non Mosca, e via di questo passo. Il flusso di metano dalla Siberia s’è fermato, l’economia tira, quella italiana più della media europea. Un successo della linea Draghi-Mattarella fatta propria da Giorgia. Ma la guerra si prolunga, non ci sono vincitori né vinti, bisognerà tener duro e più tempo passa più la voglia di emulare se non Winston Churchill quanto meno Margaret Thatcher, rischia di restare sul treno desideri. Quanto al convoglio che viene da sinistra, è finito su un binario morto, tutto dipende dalla donna del mistero che ne ha preso la guida. Elly Schlein può permetterselo visto che tornare al governo è di là da venire? Non tanto, perché sull’Ucraina si gioca davvero l’onore dell’Italia intera, al di là delle schermaglie parrocchiali.

 

Dopo averlo disarcionato in politica estera, Giorgia non vuole certo farsi scavalcare da Salvini in quella interna a cominciare dal desiderio che più le sta a cuore: fermare il traffico di esseri umani via mare (il blocco navale resta sempre sul tavolo), inseguire gli scafisti “per tutto il globo terracqueo”, spostare su Bruxelles l’onere di gestire i flussi migratori. Su questo la Lega cerca di affermare la primogenitura e il Capitano continua a ripetere che quando c’era lui, cara lei, i barchini non arrivavano e nemmeno i barconi delle ong. Fratelli d’Italia non è da meno. Con una differenza di non poca importanza: l’accoglienza. Francesco Lollobrigida ha detto apertamente come la pensa il suo partito: bisognerà accettare mezzo milione di migranti legali. Prima gli italiani? D’accordo, ma gli italiani non bastano. Lo si ripete da tempo, la popolazione scende da vent’anni e solo l’afflusso di stranieri ha impedito un crollo. E’ arrivato il momento di piegarsi all’evidenza. L’uscita del fedele cognato non deve essere piaciuta se “Lollo” come lo chiamano gli amici ha fatto una mezza marcia indietro. Anche il suo resta così un pio desiderio. Il dramma di Cutro ha portato i nervi a fior di pelle. Alfredo Mantovano e Guido Crosetto, dioscuri istituzionali del melonismo, hanno cercato di affidare alla marina militare la guida degli interventi in mare. Apriti cielo. Salvini ha fatto fuoco e fiamme perché resti in carico alla guardia costiera che dipende dal suo ministero, quello di infrastrutture e trasporti. La realtà dimostra che i guardacoste da soli non ce la fanno, ma tanto peggio per la realtà. E l’Europa? In che modo può farsi carico di quello che l’Italia non vuole? Che cosa c’è sotto gli slogan? 

 

Secondo Frontex nel 2022 sono stati rilevati circa 330 mila attraversamenti irregolari delle frontiere esterne dell’Ue: si tratta del numero più alto dal 2016. La rotta più battuta non è però quella del Mediterraneo Centrale che porta in Italia, ma quella dei Balcani occidentali che ha rappresentato quasi la metà del totale. In quest’ultima rotta lo scorso anno sono stati segnalati 145.600 attraversamenti irregolari, addirittura il 136 per cento in più rispetto al 2021. Un altro incremento pari al doppio dell’anno precedente è avvenuto anche nel Mediterraneo orientale (in Grecia, Cipro e Bulgaria) con 42.831 ingressi irregolari nella regione, il 108 per cento in più rispetto al 2021. Nel Mediterraneo centrale – cioè verso Italia e Malta – l’aumento rispetto al 2021 è stato del 51 per cento, per un totale di 102.529 persone, provenienti prevalentemente da Egitto, Tunisia, Bangladesh e Siria. Dal primo gennaio al 15 marzo sono sbarcati 20.021 migranti, nello stesso periodo dello scorso anno erano stati 6.263. Ne sono stati accolti 110.413, dicono gli ultimi dati. L’Easo, l’agenzia europea per l’asilo, scrive che lo scorso anno gli stati membri dell’Ue insieme alla Svizzera e alla Norvegia, hanno ricevuto 966 mila domande di asilo, più del 50 per cento rispetto al 2021 e il massimo registrato dal 2016, quando furono circa 1,3 milioni. Vanno poi aggiunti i circa quattro milioni di ucraini ai quali è stata concessa la protezione temporanea a causa dell’invasione russa. La Turchia è il paese che ospita il maggior numero di rifugiati (3,8 milioni), nello stesso tempo i turchi richiedenti asilo (55 mila) sono diventati il terzo gruppo dopo siriani e afghani. In Europa la Germania è il primo paese d’asilo con 1,3 milioni di rifugiati. Nella questua degli aiuti, dunque, l’Italia non è sola né la prima. ”Le richieste di asilo sono tre volte superiori agli arrivi irregolari e stanno sovraccaricando le capacità di accoglienza”, ha lamentato Ylva Johansson, la commissaria europea per gli Affari interni. Giorgia Meloni ha chiesto per iscritto che la Ue distingua tra profughi e migranti irregolari, ma lo sta già facendo. La commissione ha risposto che “occorrono soluzioni a lungo termine”, il patto sull’immigrazione è bloccato proprio dai paesi che Fratelli d’Italia sente più vicini. La Polonia accoglie gli ucraini, però issa un muro ai confini contro tutti gli altri. In ogni caso non è l’Italia il principale paese rifugio. Il rischio, insomma, è che le conclusioni del consiglio europeo la settimana prossima finiscano anch’esse sul treno dei desideri.

  

Ricordate la promessa delle promesse, “rovesceremo l’Italia come un calzino”? Finora i calzini sono stati solo rattoppati a cominciare da quello dove i buchi abbondano: il bilancio dello stato. E qui il vecchio ferroviere la fa da padrone. Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia criticato dai suoi perché troppo draghiano, ha tenuto la barra dritta con la legge finanziaria per quest’anno. Non c’erano molte alternative, la maggior parte delle risorse (21 miliardi di euro) è stata destinata a tamponare il caro energia e l’inflazione. Sulle pensioni, bloccata la legge Fornero, è stata introdotta quota 103 (41 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica). Nessun volo pindarico, niente spazi per cambiamenti, tutto rinviato. Ora i tecnici del ministero guidati dal nuovo direttore generale dimezzato Riccardo Barbieri Hermitte (l’altra metà dovrebbe essere ricoperta da Marcello Sala dopo il rifiuto di Antonino Turicchi) stanno lavorando al quadro macro economico che sarà contenuto nel documento di economia e finanza da presentare entro il 10 aprile: le aride cifre indicheranno il percorso della politica economica italiana. La recessione è evitata, ma il prodotto lordo crescerà di appena un punto percentuale, ciò vuol dire che in ogni caso si dovrà lavorare ancora con ago e filo. I rammendi, d’altronde, sono già molti.

  

Il Superbonus 110 per cento è la pietra dello scandalo: secondo i calcoli costa 72 miliardi di euro alle casse dello stato, quasi 35 miliardi più del previsto. Il meccanismo (un incentivo superiore alla spesa prevista) è perverso in sé, ma il fatto è che cresce nel tempo, secondo il governo potrà arrivare a 120 miliardi, oltre duemila euro a testa anche per gli italiani che non hanno facciate da sistemare. Dunque è ora di finirla e prima si fa meglio è. Giorgetti ne è convinto, ma contro di lui arrivano bordate da tutte le parti: i costruttori edili, i proprietari di case, le banche che scontano i crediti fiscali. Abolirlo è impossibile, ecco un altro desiderio che non scende dalla sua carrozza. Verrà ridotto al 90 per cento per arrivare poi al 65 per cento. In prospettiva può ancora peggiorare: se passa la direttiva europea sulle case ecologiche, verranno stanziati altri sostegni pubblici per compensare le spese e aiutare le imprese. Altro che patrimoniale come va declamando Salvini, sarà un nuovo buco da rammendare nei calzini dello stato. E il reddito di cittadinanza? Una pietra dello scandalo, una perversione ideologica, un ostacolo all’occupazione. Va cancellato, questo il desiderio, anzi la promessa fatta agli elettori. Invece resta. Mutilato, ridimensionato, però sopravvive. Il cambiamento è nel nome, si chiamerà Mia (Misura di inclusione attiva). E’ uno dei vezzi del governo di destra. Il ministero dello Sviluppo è diventato ministero delle Imprese e del made in Italy, al ministero dell’Istruzione viene aggiunto il Merito, all’Agricoltura la Sovranità alimentare e via via definendo con una cura degna della scolastica, solo che questa volta le cose dovrebbero essere conseguenza dei nomi e non viceversa. Il Mia ha la stessa filosofia del suo padre Rdc, ma risparmia tre miliardi di euro perché riduce la platea dei beneficiari separando le famiglie in cui sono presenti minori, over 60 o disabili e quelle composte da persone occupabili. 

 

L’inversione della sequenza dantesca, con le cose che diventano conseguenza dei nomi, non cambierà certo le tasse. Con la legge delega varata dal Consiglio dei ministri s’inizia un lungo cammino. Maurizio Leo, plenipotenziario fiscale di Fratelli d’Italia, ha annunciato che avrà tre obiettivi: mantenere la progressività prevista dalla Costituzione, garantire “l’equità orizzontale” e semplificare. L’obiettivo più importante, quello che davvero farebbe compiere un salto di qualità non tanto al barocco sistema di tassazione sui redditi, ma all’economia italiana, è ridurre la pressione fiscale che oggi sfiora il 44 per cento del prodotto lordo, un record assoluto raggiunto nel 2022, l’anno in cui si sono cumulati bonus e sostegni che hanno gettato veri e propri macigni sul bilancio dello stato. Verrà ridimensionata, ma nessuno sa come e soprattutto dove trovare le risorse per compensare l’eventuale caduta di entrate tributarie. Nel 2022 lo stato ha incassato 544,5 miliardi di imposte, per il 40 per cento derivano dall’Irpef, per il 14 dall’Ires e altre imposte dirette, per il 30 dall’Iva e il 16 da altre indirette. Su circa 42 milioni di dichiaranti, 24 milioni denunciano un reddito complessivo inferiore ai 20.000 euro annui coprendo l’8,5 per cento del gettito. A dichiarare più di 100.000 euro annui sono mezzo milione di contribuenti che coprono il 20 per cento del gettito totale. Mentre la Lega spinge per proteggere il popolo delle partite Iva, la delega ha senza dubbio un approccio più complessivo e meglio equilibrato tra le categorie sociali. In attesa di conoscere i dettagli le aliquote Irpef scendono a tre (23, 27 o 33 e 43 per cento) seguendo il percorso avviato da Draghi che le aveva portate da cinque a quattro. L’Ires si sdoppia, l’Irap diventa una sovrimposta dell’Ires, l’Iva viene riorganizzata. I pilastri del sistema dunque rimangono, come pure deduzioni, detrazioni e sconti vari, una giungla difficile da disboscare, sono ben 600 voci diverse grazie alle quali i contribuenti pagano 165 miliardi di euro in meno che si traducono in vuoti nel bilancio dello stato. Guai a chi ci mette mano, lì s’annidano i topi del formaggio fiscale. La via maestra è recuperare spazi finanziari riducendo le spese, tuttavia non fa parte del programma della destra cresciuta nel decennio successivo al governo Monti con le campagne contro l’austerità, chiedendo tutto e il suo contrario. E la flat tax? Ci sarà, verrà estesa anche ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, ma nel corso del tempo. Poi potremo finalmente raggiungere la Russia e l’Ungheria che applica il salviniano 15 per cento. La formula magica è “revisione e graduale riduzione dell’Irpef, nel rispetto del principio di progressività e nella prospettiva della transizione del sistema verso l’aliquota impositiva unica”. Di qui alla “riforma epocale” evocata da Giorgia c’è il treno dei desideri.

 

Presa nel triangolo tra Daniela Santanchè, Margrethe Vestager e Sergio Mattarella, come se la caverà Meloni sulle spiagge? Il capo del governo dopo aver cavalcato i balneari quando era a capo dell’opposizione, avrebbe voluto rinviare di un anno, poi ci si è messo di mezzo il Consiglio di stato che pur nella sua indipendenza non è insensibile alle preoccupazioni del Quirinale. Adesso una scelta s’impone e una mano arriva da Flavio Briatore: “E’ vero, sarebbe giusto che pagassimo di più. Al demanio abbiamo sempre pagato poco o niente. Credo che lo stato ricavi meno di cento milioni all’anno”, ha confessato al Corriere della Sera. Il buon senso dell’imprenditore prevale sull’affetto per Daniela. A Giorgia non resta che seguire il suo consiglio e sanare un’ingiustizia verso la collettività: mille euro in media l’anno per usare un bene pubblico è un’offesa alla Nazione. Che cosa potrà succedere? Fratelli d’Italia perderà una manciata di voti? Vedremo la serrata pasquale degli stabilimenti? In tal caso ci penserà il prefetto Matteo Piantedosi e l’ordine sarà garantito. Ben più complicata la matassa della giustizia. Giorgia Meloni ha voluto il magistrato Carlo Nordio contro le pressioni salviniane, quindi il garantismo è la linea del governo? Calma e gesso, con il passare dei mesi la forbice tra garantismo e giustizialismo s’è allargata dentro Fratelli d’Italia, non solo nella Lega. Nell’intervista al direttore del Foglio il ministro parla al futuro, incalzato da Claudio Cerasa sulle due anime del governo dice: “Io resto della mia idea. Aumentare le pene non credo abbia un effetto deterrente”. Le sue idee, il suo credo, e gli altri suoi colleghi di governo? Per certi versi fa pensare alle cautele di Leo sulle tasse. 

 

La riforma della giustizia insieme a quella fiscale sono le due gambe sulle quali si regge la svolta meloniana, una svolta rispetto al suo passato e per il suo avvenire, un giro di boa anche riguardo alla destra leghista e a quella berlusconiana. Ecco perché sono decisioni ben più ardue anche di una scelta certo non semplice come allinearsi con la Nato. Giorgia Meloni non nasconde le sue ambizioni nelle relazioni internazionali che, a quanto pare, le piacciono: dal piano Mattei per l’Africa (tutto da vedere di che cosa si tratta, ma pur sempre un’efficace suggestione) alle complesse manovre diplomatiche per alleare i conservatori ai popolari europei e rovesciare gli equilibri nella Ue. Ma per riuscire occorre rispettare due condizioni. La prima è evitare di essere trascinati dalla Lega nella sequenza dei no: dall’auto elettrica alle case ecologiche passando per le spiagge, è tutto un mettersi di traverso. La seconda è superare “il sovranismo come dottrina della decadenza” che “non spinge il proprio paese alla competizione, alla crescita e all’innovazione; suggerisce invece un ripiegamento a difesa di ciò che si ha, è il nazionalismo dei popoli stanchi”. Prendiamo queste definizioni dal politologo Alessandro Campi, già ideologo del nuovo corso di Gianfranco Fini, che oggi guarda a Giorgia con attenzione; le ha scritte nel suo ultimo libro “Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo”. Tutto da leggere per Meloni, ma anche per Elly Schlein.

 

La segretaria del Partito democratico non è certo sovranista, ma non è nemmeno globalista. Personalmente potrebbe essere definita, alla francese, una bo-bo, borghese e bohémienne, però vuole andare verso il popolo come i giovani aristocratici russi che combattevano il regime zarista. E’ presto per capire dove finirà il Pd prigioniero nella gabbia del “ma anche”, sorvegliata da due arcigni guardiani: Maurizio Landini e Giuseppe Conte. La contrattazione, ma anche il salario minimo. Lavorare meno, ma anche guadagnare di più. La società arcobaleno, ma anche la classe operaia. I precari, ma anche gli intellò. A sinistra il treno dei desideri può andare all’incontrario come nella canzone, ma anche addentrarsi in terra incognita. Schlein nel suo primo duello verbale con Meloni ha mostrato le sue doti dialettiche senza cadere nelle insidie da talk-show o nella vecchia retorica parlamentare. Ha sfidato la presidente del Consiglio a lasciar perdere le accuse al passato e spiegare cosa vuol fare qui e ora: “Io adesso sono all’opposizione e al governo c’è lei”. Nel nido intellettuale dei gesuiti, Civiltà cattolica, presentando il libro di padre Spadaro, Giorgia ha sottolineato il peso di fare scelte spesso impopolari, ma necessarie “per chi come la sottoscritta si trova a guidare una Nazione come l’Italia, forse nel suo momento più complesso dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale”. Una sfortuna probabilmente, certo un’occasione.