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Meloni e Landini: a Rimini si conferma la coppia di avversari (assai amici)

Simone Canettieri

Grazie al sindacalista, la premier pronuncia il suo discorso migliore. Cronaca tra i mille deputati di Rimini. Quasi zero contestazioni e un applauso per la leader postfascista a casa della Cgil

Rimini, dal nostro inviato. Una testa bionda ha fatto appena capolino in sala. Ma non si vede. E’ circondata dai katanga della Cgil che la scortano in un cerchio di muscoli e spinte. Applausi scroscianti. “Grande!”. I delegati del sindacato rosso, un migliaio di persone, si spellano le mani. Ce l’hanno con Madnack Dan, presidente del comitato centrale della Fiom, immigrato qui dalle Mauritius venti anni fa. Cortocircuito. Quasi nessuno si è accorto che Giorgia Meloni è arrivata al palazzetto. La scena surreale dura una manciata di secondi. Va bene l’accoglienza educata, ma addirittura un tributo del genere sarebbe stato un clamoroso al Cibali. Poi i compagni e le compagne seduti sui banchetti, quasi tutti con il loro peluche in mano come simbolo di dissenso silenzioso, capiscono. L’intervento di Dan perde appeal. “Ma perché tutta questa eccitazione: mica è Rosa Luxemburg”, urla una signora con la felpa dello Spi, la sigla-cassaforte dei pensionati.

  

“Come siamo ridotti”, rilancia con un sorriso una ragazza dello staff. Ma sono commenti che si porta via la marea umana di telecamere, sudore e strattoni che si trascina dietro la premier per metri che sembrano infiniti. Sorpresa: donna Giorgia è entrata dall’ingresso principale. Come conviene a un ospite d’onore e non da una porta secondaria come chi ha qualcosa da nascondere o da evitare. Ha sfidato qualche “bu”, i cartelli sulla tragedia di Cutro e un gruppetto di manifestanti con la bandiere nere su cui c’è scritto “No Aste”. Sono i balneari. “Siamo di destra”

   
Meloni troverà Maurizio Landini ad accoglierla, il Papa di questa chiesa laica che dal Pci ha ereditato la disciplina, il senso del partito, il centralismo democratico (la linea è questa: decido io). Si unisce anche lui alla mischia. Finalmente il padrone di casa e la grande ospite guadagnano la prima fila. Dietro di loro lo staff di Palazzo Chigi seduto in questo ordine: la storica portavoce Giovanna Ianniello, il neo capo ufficio stampa Mario Sechi e la potentissima segretaria Patrizia Scurti (si accomoda di sbieco quasi per voler dare le spalle a Sechi: i due non si rivolgeranno mai la parola). Mini delegazione. Intanto la strana coppia ridacchia. Quasi si dà di gomito. Giorgia stringe un’agenda color melanzana con i famosi appunti ormai tendenza politica, Maurizio ha un nastro bianco legato al braccio destro in memoria dei migranti morti in mare

  
Una roba del genere non accadeva da ventisette anni. E soprattutto mai un premier di destra si era affacciato a un congresso della Cgil. Per creare l’effetto strano ma vero, anche se in fin dei conti il melonismo d’essai ha sempre praticato questi esperimenti di misticanza politico-istituzionale. Certo, questo è un altro film. In generale prima di Meloni solo Romano Prodi, Bettino Craxi e Giovanni Spadolini erano intervenuti a un evento del genere. 

 
E’ una grande operazione politica per la presidente del Consiglio. Dai contorni storici, ricordati proprio dal calendario: il 17 marzo è la giornata dell’Unità nazionale. Concetto che la leader di destra ribadirà diverse volte dal palco, durante un intervento tosto e per nulla remissivo durato trentatré minuti. E’ un gesto di pacificazione nazionale? Rimini è la Onna di Meloni? Forse. Chissà se durerà, certo. Comunque se Silvio Berlusconi il 25 Aprile del 2009 festeggiò la Liberazione con i partigiani nel paesino Aquilano con tanto di fazzoletto tricolore al collo, adesso Meloni sta qui su questo palco rosso antico con la sua faccia rilanciata da due maxischermi color arcobaleno. A ripetere collaborazione e dialogo. La ascoltano ragazzi con i rasta, magliette con le scritte no al razzismo, occhialini gramsciani, delegati di fabbrica.  

 
Dietro al palco c’è un uomo della scorta. Tiene stretta con in mano la valigetta 24 ore che in caso di pericoli (vedi attentati) si apre e diventa uno scudo. Questa è la tana del lupo e il dispositivo di sicurezza abbonda in precauzioni. Ovviamente non accadrà nulla. I 24 delegati che da giorni promettevano contestazioni (e contestavano Landini per l’invito) intonano “Bella Ciao”. Si sente un “vattene razzista”. Ma alla fine lassù in montagna vanno loro, i delegati insubordinati, che abbandonano la sala come ampiamente previsto.

    
L’ospite osserva la mini contestazione e mette su una faccia quasi annoiata e allo stesso di sfida, con smorfie che sono ormai un marchio di fabbrica. “Lo slogan pensati sgradita è efficace, anche se non sapevo che Chiara Ferragni fosse una metalmeccanica”. La platea non batte ciglio, d’altronde Landini si è raccomandato all’infinito: niente scherzi. E sarà così. Con addirittura un timido applauso quando Meloni ricorda l’assalto alla Cgil riconoscendone, per la prima volta la matrice: “l’estrema destra”.

 

La premier non accarezza i mille. Cita Marco Biagi e Argentina Altobelli. Ma poi va dritta: rivendica e presenta la legge delega che cambia il fisco, e che qui non va giù, dice che va abolito il reddito di cittadinanza per chi non può lavorare. E spiega, come aveva fatto con Elly Schlein alla Camera due giorni fa, perché è contro il salario minimo. Uno, due, tre. Il pubblico non fa una piega. Giovedì con Carlo Calenda, per esempio, si era abbastanza scatenato in fischi e “bu”. Questa volta no. La disciplina prima di tutto. Meloni si prende qualche applauso quando termina un discorso. Ma più che altro è buona educazione. Prima di abbandonare il palazzetto, dopo un lungo faccia a faccia con Landini, la premier tira giù il finestrino dell’auto e dice: “C’è uno spiraglio di dialogo. E la mia presenza qui è già un segno di dialogo”. La premier farà poi tappa a Bologna al Cosmoprof con la sorella Arianna. A Rimini (grande Onna sul mare) rimane l’odore e lo smarrimento di una scena quasi onirica, a tratti felliniana con questi delegati ipnotizzati, davanti alla nemica numero uno che non arretra sui provvedimenti, ma che dice vuole dialogare e unificare. 

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.