Tra Roma e Bruxelles
Le tensioni col Quirinale e i pasticci con l'Ue. Meloni sbanda sul Pnrr e cerca alibi: "È colpa di Draghi"
La scusa è sempre la stessa: l'eredità dei governi precedenti. Dentro FdI dicono che la Commissione europea vuole infierire sull'Italia usando il Piano. Ma i dubbi europei appaiono leciti
Lamentano un accanimento, un’ostilità “verso un governo che a qualcuno non piace, a Bruxelles”. Dicono, e lo dicono convinti di rivendicare una ragione, che “prima, quando c’era Draghi, non era mica così”. E forse non sanno di che sudore grondasse, di che sforzo diplomatico, quella supposta concordia tra la Commissione europea e Palazzo Chigi ai tempi del banchiere. O forse lo sanno, ma preferiscono alimentare una narrazione diversa: che si sostanzia del solito vittimismo sovranista, della sindrome di accerchiamento così ricorrente, nelle impuntature patriottiche. Come che sia, Giorgia Meloni e i suoi collaboratori si preparano già a dover gestire una sorta di resa sul Pnrr: armano la contraerei.
C’è perfino una cartellina, già pronta. Raffaele Fitto l’è andata riempendo, nel corso di lunghi mesi di “monitoraggi”, con tutti i report che, a suo dire, certificano le storture presenti nel Pnrr elaborato da Draghi. Il più classico, insomma, degli alibi italici: l’eredità dei precedenti governi. È a questo che ieri una nota di Palazzo Chigi ha fatto esplicito riferimento per spiegare il perché di un ulteriore prolungamento della fase di assessment da parte della Commissione sugli obiettivi di dicembre. Ma non è che l’inizio.
E dunque ecco l’elenco dei programmi troppo ambiziosi o di bandi scritti male (le concessioni portuali, la costruzione degli stadi di Venezia e Firenze) di una mole di opere e di risorse attribuite a quei piccoli comuni del sud che “figuriamoci se di qui al 2026 riusciranno a mettere a terra tutti quei soldi”. E poi i conflitti irrisolti tra alti dirigenti del Mef e i vertici della cabina di regia a Palazzo Chigi (convocata per oggi per fare il punto anche sul RePowerEu), e poi i ritardi di spesa rispetto ai preventivi già certificati nella Nadef di ottobre.
Meloni lo aveva già detto, ai suoi colonnelli, ancora prima di ricevere l’incarico da Sergio Mattarella: “I ritardi del Pnrr sono evidenti e difficili da recuperare; sarà una mancanza che non dipende da noi, ma che a noi verrà attribuita anche da chi l’ha determinata”. Ma quella era una riunione privata, a Via della Scrofa. Ora l’idea della premier è di uscire allo scoperto. Della serie: se a Bruxelles qualcuno si azzarda a incolparci, tiriamo fuori le carte. Ieri, il primo accenno. D’altronde già alla vigilia del Consiglio europeo, mentre Giuseppe Conte, alla Camera, rivendicava il suo successo di negoziatore europeo sul Recovery, Meloni non s’era trattenuta: “Se, se, er Pnrr: lo vedremo alla fine che successo”. Come a dire: è già scritto che vada tutto a ramengo. Venerdì, dopo il richiamo all’ordine da parte del capo dello stato, in FdI s’è accesa la paranoia: “Useranno il Pnrr per farci cadere”.
E dunque, dicono, se non alla luce di uno specifico sadismo antimeloniano, come spiegare la pignoleria con cui la Commissione insiste nell’opporre rilievi sui traguardi del dicembre scorso? I collaboratori del ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto, di fronte all’ennesima contestazione su una minuzia che riguardai i target del teleriscaldamento (almeno 15 minuzie su 27 progetti, a ben vedere), hanno alzato le mani: “Ma è assurdo, così è impossibile lavorare”. Davvero, dunque, c’è una volontà d’infierire sull’Italia, da parte di Ursula von der Leyen?
Chi lo pensa, evidentemente non sa, o non ricorda, di quante volte, anche Draghi dovette ricorrere a tutta la sua capacità di persuasione, sul Pnrr, per superare le riluttanze europee. E certo, Draghi è Draghi: basta la parola. E però in verità spesso il sottosegretario Roberto Garofoli fu costretto a telefonare a Bruxelles, quando ormai tutto pareva compromesso, per puntellare gli obiettivi in vero un poco discutibili del ministero dell’Istruzione (ad esempio sul docente esperto). A dicembre 2021, quando si rischiava di essere bacchettati sui contratti pubblici, l’allora segretario generale di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa, forse recuperando i suoi contatti presso la commissione di quando era ai vertici dell’Antitrust, s’inventò una mezza acrobazia giuridica per fare in modo che gli scrupolosi collaboratori di Von der Leyen accettassero, a garanzia del target raggiunto, non il varo del decreto promesso ma la semplice stipula di un protocollo tra governo e l’Autorità nazionale Anticorruzione. Diplomazia, appunto.
E credibilità. “A noi certe cose non ce le lascerebbero passare mai”, è l’obiezione che già pare di percepire nei corridoi di Palazzo Chigi. La verità è, forse, che nel confronto tra Roma e Bruxelles, negli ultimi mesi qualcosa s’è guastato. Fitto gestisce le relazioni con la Commissione, sul Pnrr, con un’oculatezza maniacale, ma volendo tenere un controllo ferreo su ogni dispaccio, su ogni scambio di pareri. Il rischio che il traffico s’intasi, così, è concreto. Il riassetto della governance – un riassetto su cui la Commissione si è riservata di approfondire, prima di dare il proprio nulla osta – crea inevitabilmente la necessità di aggiustamenti in corsa che complicano il lavoro. Funzionari ministeriali che si occupavano dei progetti del Pnrr, ora destinati ad altro ruolo o scaricati in nome dello spoil system, ricevono ancora telefonate da chi gli è succeduto. E le domande sono talvolta di questo tenore: “Ma questa cosa che ci chiede la Commissione, cosa significa?”. Non proprio rassicurante, ecco.