La surreale incoerenza dei pm su Berlusconi e le stragi di mafia
Mandante delle stragi a Firenze e vittima della minaccia stragista a Palermo, socio occulto di Cosa nostra a cui frega 20 miliardi e ordina di far fuori Maurizio Costanzo. Le accuse al Cav. dei pm Tescaroli, Ingroia, Scarpinato e Di Matteo non solo sono poco credibili, ma anche inconciliabili tra loro
Anche i romanzi polizieschi e le spy story, per quanto trattino di vicende improbabili (e spesso appassionano proprio per questo), pur rimanendo nell’ambito del racconto di fantasia, per essere trattati come un’opera d’intelletto seria devono mantenere un filo logico e una coerenza interna. Eppure pare sia un requisito impossibile per le trame delle inchieste sulle stragi mafiose.
Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, come è noto, sono indagati dalla procura di Firenze per “concorso in stragi”: sarebbero cioè i “mandanti esterni” delle stragi continentali del 1993 a Milano, Firenze e Roma, inclusi i falliti attentati a Maurizio Costanzo e allo stadio Olimpico. Berlusconi e Dell’Utri sono già stati indagati varie volte per questo reato, da diversi pm nelle stesse procure e dagli stessi pm in diverse procure, e sempre archiviati. La tesi, sintetizzata in maniera un po’ brutale, è che l’industriale milanese avesse stretto un patto con Cosa nostra per preparare il terreno per la sua discesa in politica, indebolendo il sistema politico-partitico della Prima Repubblica attraverso un colpo al cuore le istituzioni già barcollanti per Tangentopoli e la crisi economica.
Far piazzare delle bombe in giro per il paese, a occhio, pur presumendo tutto il male possibile per gli indagati, non pare la strategia più lineare ed efficace per vincere le elezioni. Così come si fa fatica a immaginare che Berlusconi sia stato il mandante dell’attentato a Maurizio Costanzo, che era il più importante giornalista delle sue televisioni. Pur presumendo un patto scellerato con la mafia, per zittire l’impegno antimafia di Costanzo Berlusconi aveva mezzi meno cruenti: va bene che a inizio anni 90 in Italia il mercato del lavoro era rigido, ma non c’era certo bisogno di un’autobomba per liberarsi di un dipendente.
Allo stesso modo si fatica a stare dietro alle parole dette al pm Luca Tescaroli dal boss stragista Giuseppe Graviano, secondo cui suo nonno sarebbe il socio occulto del Cav. a cui avrebbe dato “20 miliardi di lire” della mafia per acquistare il 20 per cento delle sue attività: il patto sarebbe dimostrato da una “carta scritta” che Graviano non è in grado di fornire, ma mai formalizzato dal notaio per via dell’arresto del boss. E così Berlusconi, finora descritto come estorto dalla mafia, sarebbe all’improvviso l’unico uomo nella storia capace di fregare 20 miliardi a Cosa nostra. A cui poi ordina pure di mettere le bombe per vincere le elezioni.
Il problema non è solo l’implausibilità delle vicende, per giunta in assenza di prove concrete che non siano racconti di collaboratori di giustizia. Certo, una storia con evidenti aspetti di illogicità, già archiviata più volte negli ultimi decenni, e non corroborata da solide prove documentali è poca roba per montarci campagne mediatico-giudiziarie. Ma in questa attività pluridecennale della magistratura sulle stragi e alla ricerca di “mandanti esterni” e “terzi livelli”, c’è anche un tema di incoerenza rispetto alle altre inchieste e ricostruzioni giudiziarie che si intrecciano in questa storia.
Ad esempio, proprio sulla vicenda dell’attentato a Maurizio Costanzo, poche settimane fa l’ex pm della “Trattativa stato mafia” Antonio Ingroia ha fatto una ricostruzione opposta. Nell’ambito del processo “Ndrangheta stragista” a Reggio Calabria – che tratta delle stesse vicende storiche e dove è stato sentito anche Graviano e dove un altro pentito ha detto di aver visto nel 1978, dopo l’omicidio Moro, Craxi Berlusconi e un boss della Ndrangheta, stringere un accordo politico in un agrumeto – Ingroia, stavolta nel ruolo di avvocato, ha detto che in sostanza l’attentato della mafia a Maurizio Costanzo avesse più finalità, tra cui quella di convincere Berlusconi a candidarsi per prendere il potere, dato che il suo entourage era in gran parte contrario alla discesa in campo. Quindi Berlusconi non più “mandante” dell’attentato a Costanzo, come si ipotizza a Firenze, ma “vittima” in quanto oggetto di una minaccia. Non sarebbe il Cav. a usare Cosa nostra per farsi spazio nell’arena politica a colpi di bombe, ma Cosa nostra a convincere un riluttante Cav. a impegnarsi sotto la minaccia degli attentati.
Un ribaltamento analogo accade con il processo sulla cosiddetta Trattativa, imbastito dallo stesso Ingroia e dal pm Nino Di Matteo (già autore con Tescaroli delle inchieste archiviate a Caltanissetta su Berlusconi e Dell’Utri “mandanti esterni”). Ebbene, nell’impalcatura della Trattativa, Berlusconi e il suo amico Dell’Utri non sono i mandanti delle stragi del ‘93 (come si ipotizza a Firenze), ma uno la vittima e l’altro il tramite della minaccia mafiosa. Secondo l’accusa, peraltro smontata dalla sentenza di Appello che ha assolto tutti i soggetti politico-istituzionali, il premier Berlusconi era infatti parte lesa della “minaccia la corpo politico dello stato” che il suo non più amico Dell’Utri gli avrebbe riferito per conto di Cosa nostra.
C’è poi, collegata, la vicenda della strage di Via D’Amelio. Nel processo sulla Trattativa, l’accusa ha sostenuto che per l’omicidio di Paolo Borsellino c’è stata una “accelerazione” da parte della mafia per eliminare il giudice che era un ostacolo al patto con la politica: l’uccisione di Borsellino, nelle intenzioni di Riina, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo stato. Solo che qualche settimana fa Roberto Scarpinato, senatore del M5s ed ex procuratore generale a Palermo, uno dei teorici della Trattativa, ha sostenuto l’opposto. Per gli interessi di Cosa nostra, dice Scarpinato, l’attentato a Borsellino era “una follia” dato che il decreto che introduceva il 41-bis sarebbe scaduto di lì a pochi giorni e non sarebbe stato convertito: “Bastava aspettare e Cosa nostra avrebbe incassato il risultato – dice Scarpinato – Riina invece decide di anticipare la strage, senza riuscire a dare una spiegazione agli altri boss, perché non può rivelare che quella strage è stata chiesta da soggetti esterni”. Così la mafia non tenta di piegare lo stato per togliere il 41-bis, ma si piega agli interessi di “soggetti esterni” beccandosi il 41-bis. L’opposto della tesi del processo Trattativa.
Ma il problema vero non è neppure che così tanti magistrati diffondano versioni e ricostruzioni opposte e inconciliabili. Sarebbe forse pure sano e interessante vederli scontrarsi dicendo uno all’altro chi non ci ha capito niente. Ciò che è più terrificante è che i vari Tescaroli, Ingroia, Scarpinato e Di Matteo vanno d’accordo su tutto: si ritrovano spesso in convegni in cui si danno ragione a vicenda. Evidentemente senza che nessuno abbia capito cosa sostengano gli altri.