dentro l'Ue
Scholz o Macron? Le intese incerte di Meloni, che finisce per essere usata dagli alleati
Tra nulla di fatto su biocarburanti e ricerche di alleanze sul nucleare. La premier in Europa sta facendo fatica a forzare la mano in modo tattico su alcuni dossier e a insinuarsi nel cuore franco-tedesco
A Palazzo Chigi dicono che in fondo “è sempre stato così”. Che l’Italia, costretta un passo indietro rispetto a Francia e Germania, non può fare altro che insinuarsi nel gioco delle parti tra i due amici prediletti. Questo, almeno, lo dicono i pragmatici. Gli altri, i teorici della Fiamma, insistono che “ora non si va più col cappello in mano, ma a testa alta”. La verità è che, nel dubbio sul da farsi, Giorgia Meloni rischia di finire utilizzata, malgré soi, ora da Scholz ora da Macron.
Che sulla faccenda dei motori ecologici la furbata tedesca ai danni italiani si sia rivelata fin troppo spudorata è parso evidente nell’imbarazzo con cui Gilberto Pichetto, arrivando a Bruxelles, e interpellato sul punto (“Pensa che l’Italia sia stata usata dalla Germania?”), ha allargato le braccia in un sorriso sornione: “Eh, non so”. Una reticenza fin troppo eloquente, quella del ministro dell’Ambiente, che infatti è stata subito notata dai cronisti tedeschi.
Come che sia, Scholz ha ottenuto quel che voleva. Per sabotare l’iniziativa della Commissione, necessitava di un asse con l’Italia per ottenere una minoranza di blocco. A Roma speravano che ciò sarebbe valso, in qualche modo, l’estensione dell’eccezione anche sui biocarburanti, tema peraltro su cui Meloni ha risentito non poco degli interessi di Eni, leader internazionale nel settore. Ma il cancelliere socialdemocratico, che già sui carburanti sintetici a lui cari ha rischiato lo psicodramma di governo, non ha certo potuto, né voluto, sfidare la fermezza del commissario Frans Timmermans contro i biofuel. E il risultato è che, per ora, l’Italia resta esclusa dai negoziati che contano.
Non è la prima volta. Già a novembre scorso, Giancarlo Giorgetti si lasciò convincere dal collega tedesco, Christian Lindner, a sostenere la candidatura di Pierre Gramegna a capo del Mes. Fu una mossa decisiva, e sbloccò uno stallo che durava da mesi. Erano convinti, a Palazzo Chigi, che il favore sarebbe stato reso con gli interessi, dal liberale ministro delle Finanze di Berlino: che invece, nei negoziati per la riforma del Patto di stabilità, resta il rigorista che è.
E qui sta il paradosso meloniano. Perché fin dall’inizio del suo mandato era parso chiaro che, sui temi economici, la sponda più utile per l’Italia andasse cercata a Parigi. E le premesse, lì sulla terrazza del Grand Hotel Melia, la sera del 22 ottobre, con la premier appena battezzata da Sergio Mattarella, parvero esserci. Poi, però, al dunque quell’intesa non s’è mai concretizzata. Anche quando, al di là dei bisticci di facciata sui migranti, Emmanuel Macron l’ha cercato davvero, e per settimane, un riscontro da Meloni. Ché non solo sulla flessibilità, ma pure sul piano anti Ira (l’Inflation Reduction Act degli Usa), la convergenza sembrava naturale. Macché. Di Parigi, Donna Giorgia non voleva sentir parlare.
Poi, però, fuori tempo massimo, la svolta. “Visto? Con Macron si sono visti, ma in territorio neutro e su richiesta del francese”, spiegavano dalla delegazione italiana, durante l’ultimo Consiglio europeo. E certo, l’interesse del presidente francese era chiaro: serviva la certezza di ottenere la bollinatura europea sull’energia nucleare, e il sostegno italiano, sia pur non indispensabile sul piano numerico, di fatto rendeva velleitaria qualsiasi opposizione di altri paesi. E ci sta, certo. Si capisce meno cosa abbia da guadagnarne l’Italia, però. E si capisce ancor meno perché passerebbe da questa concordia rinnovata lo sblocco della crisi tunisina. Che davvero da Parigi possa arrivare la spinta risolutiva per agevolare il prestito del Fmi a Tunisi, è tutto da vedere.
L’impressione, nel complesso, è quella di un incedere ondivago, da parte di Meloni. Che certo, fedele com’è ai suoi convincimenti ideologici, sarebbe assai più portata a rafforzare gli accordi coi paesi del blocco di Visegràd, e a favorire un’alleanza – quella tra Popolari e Conservatori – che la lancerebbe al centro del proscenio europeo. Se non fosse che proprio Scholz e Macron sarebbero le vittime di un simile cambio di paradigma delle alleanze. Ed ecco, allora, il cortocircuito. Lo stesso che già Mario Draghi aveva illuminato in uno dei suoi ultimi interventi da premier, ricordando che gli interessi italiani si tutelano meglio se si sta insieme a Francia e Germania. Era la convinzione di chi, nella chiarezza strategica di un’alleanza, aveva saputo anche forzare la mano, tatticamente, su alcuni dossier: il price cap sul gas inviso a Berlino o l’ingresso dell’Ucraina in Ue contrastato da Parigi. Certo, quella era ancora l’epoca della “pacchia”, per l’Europa. E forse, però, anche per chi fino ad allora aveva sempre vissuto all’opposizione.