l'editoriale dell'elefantino
Il revisionismo secondo La Russa, un esempio di petulanza narcisistica
Di via Rasella si sa tutto quel che si può sapere, e il resto è nebbia di guerra. Quel che c’era da rivedere è stato rivisto, senza gettare alle ortiche la distinzione tra le ragioni dei resistenti e l’infamia degli occupanti e dei fascisti loro manutengoli
Non è fascismo quello del circo La Russa, è folclore arboriano, come dice Salvatore Merlo, roba televisiva o d’occasione. Fa specie sentire quelle distratte ricostruzioni storiche revisioniste, pare per l’ultima volta (promessa da marinaio?), sulla bocca di un presidente del Senato. Ma le cariche dello stato sono elettive, vengono dalle scelte elettorali e dai rappresentanti della democrazia delegata, che è una conquista della Liberazione e della prevalenza degli Alleati nella Seconda guerra mondiale. Per me gli Amendola, i Trombadori, i Bentivegna, i Salinari, le Capponi, i Calamandrei, e mettiamoci anche Sandro Pertini e Riccardo Bauer, sono famiglia allargata, i loro nomi e fisionomie, le polemiche atroci che hanno suscitato, le testimonianze, la milizia politica resistenziale, per me è tutto ovvio e passato dall’infanzia in giudicato.
Eppure sono da decenni un revisionista, non tollero che si dicano scemenze storiche, che si facciano semplificazioni e approssimazioni quando si tratta di fare storia viva, anche di parte partigiana e comunista e socialista e azionista e cattolica. La gloria della libertà riconquistata, della sconfitta del nemico nazista, tutto questo non si deve monumentalizzare oltre il dovuto celebrativo, oltre la ricorrenza, non si pietrifica in ideologia buona per tutti gli usi, con Bella ciao sfondo musicale anche di quelli che poi si sono esposti come aguzzini televisivi dell’Ucraina e del suo coraggio resistenziale, amici della Wagner eguali agli amici e complici di Kappler.
Di via Rasella si sa tutto quel che si può sapere, e il resto è nebbia di guerra, silenzioso lavorio della coscienza e scavo paziente nei documenti e nei fatti. Nelle guerre per bande, o guerre civili, si manifestano le incertezze e le tragedie del potere. I comunisti e i loro alleati nel Cln, ciascuno piantando il sedimento di qualcosa in cui credeva, fosse lo Stalin che incarnava a quel punto la guerra antihitleriana, fosse il re, fosse un ideale repubblicano mazziniano, volevano aggredire gli occupanti in una Roma paralizzata dall’orrore e dalla paura, già teatro di altri attentati e rappresaglie, e lo volevano per creare le condizioni di qualcosa che non ci fu e forse non avrebbe potuto mai esserci nella città aperta, nella zona di guerra a statuto speciale che fu la Roma patriottica e guerrigliera ma non insurrezionista, la Roma liberata in festa mobile dagli angloamericani due mesi dopo l’attentatone e la rappresaglia tedesca alle Ardeatine. Sono cose indecidibili fin da allora, sulle quali la controversia era in ombra ma strisciante e presente, e sono cose decise in una logica ferrea e irrecusabile, compreso il rischio di rappresaglie, che erano una realtà militare e non potevano essere dissuasione dall’impegno combattente per nessun motivo. Trasformare la politica d’assalto dei Gap romani, contro l’attendismo o attesismo, in un atto cinico è grottesco. Altrettanto grottesco è negarne l’elemento tragico, i contorni politici come sempre anche opachi, le discussioni su alternative che non si realizzarono mai, la posizione peculiare del Vaticano e della Democrazia cristiana che lo rappresentava, l’indiscutibile coraggio eroico di chi confezionava il tritolo, si travestiva da spazzino, e procedeva a rischio della sua vita all’attentato dinamitardo e allo scontro a fuoco.
L’Italia è stata comprensibilmente bloccata per molti anni nella cornice retorica monumentale dei vincitori, e guai ai vinti che finirono come finirono, guai ai Buffarini Guidi, ai Barracu, ai Donato Carretta. Il tempo però è il sale della storia, il regime dei partiti costituzionali si è dissolto dopo la crisi della sua consociazione politica, un’esplosione di moralismi e giustizialismi ha sepolto la Repubblica del 25 aprile; e alcuni storici e politici coraggiosi avevano rivisto quel che c’era da rivedere senza gettare alle ortiche la distinzione tra le ragioni dei resistenti e l’infamia degli occupanti e dei fascisti loro manutengoli, anche nella buona fede repubblichina di tanti. Non c’è niente da aggiungere alla verità che si fa largo con il revisionismo e l’audacia del confronto con i fatti nudi e crudi. Per questo le sparate di La Russa sono solo estrema propaggine di una petulanza narcisistica.