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il ritratto

Così Raffele Fitto è diventato Mr Pnrr

Marianna Rizzini

Il post democristiano resiliente. Dice che alcuni progetti del Piano “non sono realizzabili entro il 2026”, ma non si sente rassegnato. Ritratto del ministro, ex berlusconiano e oggi meloniano, che contratta con l’Europa sui ritardi italiani

Intanto, le frasi: “Siamo al governo da cinque mesi, non da cinque anni”; “immaginiamo un coordinamento unico dei fondi di coesione e fondi del Pnrr”; “i piani per gli stadi di Firenze e Venezia sono stati presentati da Mario Draghi”; “serve un’operazione verità”. E insomma sono giorni che Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei, le Politiche di Coesione e il Pnrr nel governo Meloni, tenta di restare in equilibrio tra due opposti, che si trovi a Roma o a Bruxelles, e che si trovi o meno a parlare con sindaci che si propongono come possibili salvatori del Piano nazionale di ripresa e resilienza, dopo che la Corte dei conti ha fatto emergere una serie di criticità nelle tempistiche della “messa a terra” del medesimo – anche visto l’incombere della cosiddetta “terza rata” da 19 miliardi e la speranza di riuscire a sistemare le cose con una proroga. E i due opposti, dice chi conosce Fitto nella sua attitudine di “post democristiano che conosce l’arte dello stare in piedi ovunque e comunque”, oscillano tra il dire (come Fitto ha detto) che alcuni progetti nell’ambito del Piano “non sono realizzabili entro il 2026”, e l’affermare, come Fitto ha fatto presente al commissario europeo per gli Affari economici ed ex premier Paolo Gentiloni, durante una cena all’ambasciata italiana a Bruxelles, che lui, ministro per il Pnrr, non è affatto “rassegnato” (intanto Fitto ha visto il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, la cui materia impatta non poco sulla suddetta “messa a terra”). 

E la misura della non rassegnazione corre sottotraccia, lungo i binari del voler riscrivere, risistemare, adattare i progetti del piano, e buttare così il cuore oltre la data del 2026, verso l’orizzonte meno ravvicinato del 2029. Di mezzo c’è il mare (credibilità, burocrazia, organici sui territori?), oltre alla richiesta di “trasparenza” che arriva dalle opposizioni, che da giorni chiedono a Fitto di riferire in Parlamento. E dunque il Fitto che si aggira per l’Europa – dove pure è stato a lungo europarlamentare, e dove ha fatto da uomo-ponte per la Giorgia Meloni pre-governativa (una volta entrato in Fratelli d’Italia e dopo aver lasciato la casa berlusconiana), ma anche, poi, per la Meloni pragmatico-governativa – è un Fitto convinto che si debba “cercare un’alternativa per ciò che non può essere messo a terra”. Con questa idea è andato a trattare, mentre tra Roma e Bruxelles la tensione resta alta attorno al Mes.

“Sinceramente è paradossale, se non lunare, immaginare una polemica con il governo” sul rifacimento dello stadio Artemio Franchi di Firenze e sulla realizzazione del Bosco dello Sport di Venezia, ha detto Fitto a Bruxelles, apparendo ottimista sulla eventuale “soluzione di confronto con la Commissione Europea”. “Il Pd ha chiesto al ministro Fitto di venire in Aula a spiegare cosa sta succedendo sul Pnrr”, ha fatto eco la deputata dem Anna Ascani. Fate proposte dopo aver analizzato e individuato i progetti irrealizzabili, ha detto Fitto informalmente ai ministri. 

Giorni duri? “Questa è la sua terza vita”, dice un collega di vecchia data, abituato a vedere Fitto “alle prese con battaglie che paiono sempre al livello superiore del videogioco in corso”. E insomma, racconta l’amico: “Fitto era un ragazzino quando è entrato in politica, ragazzo quando è diventato presidente della Regione Puglia, poco più che ragazzo quando è stato sconfitto da Nichi Vendola per pochi voti, e a quel punto giovane uomo quando ha cominciato a fare le pulci ai vertici azzurri” (fino al punto, vista con gli occhi del poi, di passare a Fratelli d’Italia). 

Il passo indietro porta dunque, a sbalzi, lungo un percorso che va dalla fine degli anni Ottanta – quando il giovane Fitto, ora cinquantatreenne, perde all’improvviso il padre e mentore politico Salvatore – e si protende verso la seconda decade degli anni Duemila, quando Fitto, considerato non più un lealista berlusconiano ma una specie di rottamatore interno in chiave anti e post alfaniana, se ne esce con Silvio Berlusconi, a un certo punto, citando la frase casus belli con Gianfranco Fini: “Che fai, mi cacci?”. E’ andata a finire, sempre con gli occhi del poi, che Fitto si è per così dire cacciato da solo, per approdare in lidi meloniani in anni in cui Meloni lanciava appelli per allargare il campo di Fratelli d’Italia “e arrivare alla costituzione di un grande movimento conservatore e sovranista che metta al centro la difesa degli interessi nazionali italiani”. Fitto aderiva, e da lì in poi è storia d’oggi. 

Ma è la storia di ieri a illuminare l’atteggiamento per così dire resiliente dell’ex ministro per i Rapporti con le Regioni (nel governo Berlusconi IV) e più volte deputato ed eurodeputato. Uno che rinnovava la tessera di Forza Italia ma diceva “no” al Patto del Nazareno con Matteo Renzi, chiamando a sé i fautori di un ipotetico nuovo centro, da creare prima di tutto attraverso il ricorso a primarie azzurre che l’allora Cav. continuava a rimandare. Azzeriamo le nomine, diceva Fitto – già, prima che azzurro, esponente dei Popolari e di Cdu e Cdl. E c’era chi lo paragonava appunto a Gianfranco Fini; chi vedeva in lui un Angelino Alfano al quadrato, e chi, addirittura, ci trovava un contraltare di destra dell’ex ministro e aspirante papa straniero di sinistra Fabrizio Barca, quello che, tra il 2013 e il 2014, percorreva l’Italia in senso alternativo a quello dell’allora segretario pd Matteo Renzi, opponendosi alla via renziana senza però mai sfasciare tutto. E ci si domandava, a quel tempo, che cosa mai volesse davvero dire la parola “Oltre” che spuntava sul sito di Fitto, impegnato nel tentato, suddetto atto di superamento del berlusconismo, quello non riuscito agli ex delfini Fini e Alfano, contro cui però, in chiave pro Cav., a un certo punto Fitto s’era mosso – e vai a capire che strani giri la Nemesi azzurra aveva compiuto, divertendosi a far diventare oppositore uno che fino a poco prima era stato considerato lealista. “Oltre cosa, oltre chi”? era la domanda, mentre Fitto annunciava di non voler votare le riforme (no all’accordo con Renzi costi quel che costi, era il concetto). Berlusconi a quel punto dava a Fitto i quindici giorni: o dentro o fuori. Non siamo rottamatori, siamo “ricostruttori”, dicevano i fittiani allora, prima di riunirsi all’Auditorium del Massimo, a Roma, “per esporre le nostre proposte per l’Italia, oltre che per Forza Italia e il centrodestra” (e c’è chi, oggi, davanti al Fitto meloniano che contratta a Bruxelles sui piani ex Pnrr, spera in quel passato: della serie “già allora il ragazzo aveva ambizioni patriottiche”). E qualcuno, in Forza Italia, analizzava il tutto alla luce di una presunta “permalosità” dell’ex democristiano Fitto, che in un giorno lontano era stato così apostrofato da Silvio Berlusconi, tra il serio e il faceto: “Sei figlio della vecchia Dc? Allora se vuoi puoi andare”. 

In ogni caso Fitto non portava alle conseguenze estreme quel tramestio, rifugiandosi piuttosto, attraverso le parole profuse sul web dall’allora spin doctor ex radicale Daniele Capezzone, verso la linea del “parlare ai delusi” del centrodestra, quelli cui non era andato giù il Patto del Nazareno. “Occorre riprendere la bandiera del cambiamento e dell’innovazione, e offrire agli italiani una nuova proposta che parli ai delusi e agli astenuti dell’attuale centrodestra…”, era il mantra. Ma restava il fatto: Fitto, fin dal 2013, aveva chiesto, via intervista al Corriere della Sera, “la convocazione di un congresso straordinario”, specificando che però la richiesta non era finalizzata a qualche incarico (l’idea era: ottenere le primarie a tutti i i costi). Ma lo strappo avverrà due anni dopo, nel 2015, quando l’attuale ministro con delega al Pnrr lascia Forza Italia al grido di “capitolo chiuso”.

Ma in quella parola “oltre”, in evidenza sul sito di Fitto, era già racchiusa la storia di oggi: vuol dire “oltre questa Europa”, non “oltre questa Forza Italia”, spiegavano gli esegeti, e vai a sapere, allora, che Fitto si sarebbe trovato, proprio di fronte a quell’Europa, nel ruolo di colui che deve cercare di fermare la corsa contro il tempo per evitare di perdere il treno del Pnrr. “Serve carattere”, dicono i saggi nei corridoi europei. 

Ma qual è il carattere di Fitto? Se non soccorre la fisiognomica – il ministro è talmente composto nella posa come nella pettinatura vecchio stile da non tradire ansie  – soccorre la storia del medesimo. E’ nativo di Maglie, Fitto, puro Salento, il luogo a cui tutte le intricate strade del sud della Puglia portano quando si passa da un versante all’altro del tacco dello stivale. E la storia parla di un ragazzo che deve smettere presto di essere tale, causa morte del padre quando ancora i vent’anni sono un traguardo. C’è infatti un prima e un dopo, nella giovinezza del “Mr Pnrr”, come lo chiamano i burloni a Montecitorio: un prima fatto di corse in moto, molto calcetto, discoteche “da pariolini delle Puglie”, qualche ragazza, poca politica e qualche voto un po’ così in matematica. I “giorni della motocicletta”, li chiamavano scherzando alcuni amici che oggi ricordano il Fitto pre-politico, quello deciso a diventare avvocato. E c’è un dopo: la fine prematura della spensieratezza e delle uscite scapestrate. E’ quello l’inizio della vita politica, dopo la morte del padre, con iscrizione alla Dc locale, su consiglio della madre, conoscitrice della politica locale. “Che il mio futuro potesse essere la politica l’ho pensato solo quando mio padre è scomparso, quando è venuto meno un punto di riferimento per le aspirazioni di tanti pugliesi, quando si è trattato di non disperdere un immenso patrimonio di esperienza amministrativa e di relazioni”. 

La slavina di Tangentopoli fa il resto. Il futuro ministro entra nel Partito popolare italiano, area Buttiglione. Poi si avvicina a Berlusconi, fino alle elezioni europee del 1999, quando ottiene un seggio a Strasburgo. Ma la vita salentina resta una costante per via della moglie Adriana (vista una sera vestita di rosso e mai più lasciata), dei tre figli e poi di una strana amicizia intermittente e trasversale con Massimo D’Alema (in chiave anti-renziana), nonostante da ragazzo Fitto si fosse spesso scontrato a scuola con i “comunisti”. “Non ho avuto una giovinezza normale”, dice agli amici. Ai tempi dell’ultimatum berlusconiano, Fitto aveva scritto a Berlusconi una lettera il cui incipit più o meno diceva: “Caro presidente, meglio esserti antipatico e non abile nello sport dell’ossequio a corte, ma utile e sincero”. Per ora non c’è ultimatum europeo, anzi il commissario Gentiloni due giorni fa rassicurava indirettamente l’Italia. Ma tutti sanno che la sabbia nella clessidra scorre, mentre qualcuno, nella maggioranza (Fitto  compreso), cerca di spostare invano qualche colpa sui predecessori. 
 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.