Idee oltre le nomine
Il rischio di usare le partecipate solo come un braccio operativo dello stato
Dare ai manager pubblici una ampia libertà di azione consentendo ad essi di muoversi in termini praticamente privatistici. Una scelta che fece svoltare l'Italia negli anni Cinquanta e che dovrebbe illuminare il dibattito odierno
Archiviate le nomine – con tutto la coda di umane passioni che comprensibilmente le accompagnano – possiamo porci la domanda più rilevante (e forse anche più interessante). Che idea ha la politica italiana delle società in cui, direttamente o indirettamente, lo stato compare come azionista di maggioranza relativa (se non assoluta)?
Sul versante dell’opposizione, una voce autorevole della sinistra ha dato qualche giorno fa una risposta che si può presumere essere largamente condivisa a sinistra. “L’Italia ha la fortuna – ha osservato, sulle colonne de La Stampa, Fabrizio Barca – di avere un terzo della capitalizzazione della Borsa di Milano fatta da una quindicina di imprese pubbliche che, dalle Fs all’Enel, hanno una qualità tecnica assai elevata” aggiungendo che ad esse dovrebbero essere assegnate alcune delle missioni strategiche di cui il Pnrr ancora manca. Non rileva che, per fare solo alcuni esempi, nell’Eni all’azionista pubblico faccia riferimento poco più del 30% del capitale, il restante 70% essendo suddiviso fra investitori istituzionali (47%) ed investitori retail (14%). Non rileva che, per fare un secondo esempio, nel caso dell’Enel poco meno del 24% del capitale faccia capo all’azionista pubblico, oltre il 59% essendo appannaggio di investitori istituzionali e il 17% circa di investitori individuali. Percentuali queste ultime molto prossime a quelle che si osservano nel caso di Leonardo o anche di Terna. Né rileva, infine, il fatto che anche nel caso di Poste Italiane, la quota di capitale sottoscritta da investitori istituzionali o individuali si aggiri intorno al 35%. Né, infine, il fatto che si tratti in non pochi casi di aziende quotate in Borsa – e, in qualche caso, direttamente o indirettamente non solo a Milano – e dunque quotidianamente soggette allo scrutinio dei mercati nazionali ed internazionali. L’idea di fondo è che le società partecipate siano articolazioni sui generis della Pubblica amministrazione che potrebbe così perseguire i suoi obbiettivi anche con le risorse di terzi (i quali, almeno per quanto riguarda gli investitori istituzionali, potrebbero trovare altrove una qualche compensazione per un esercizio tollerante della funzione di controllo). È una lettura della realtà che si può condividere o meno ma che ha, indubbiamente, il pregio della chiarezza.
Sul fronte opposto, molte prese di posizione di esponenti della attuale maggioranza – recentemente, fra gli altri, il ministro Urso – lasciano ipotizzare che su questo specifico aspetto la sintonia fra destra e sinistra sia molto più ampia di quanto non si immagini. Tanto ampia da convergere più o meno esplicitamente sul ricordo velato di nostalgia della stagione delle Partecipazioni Statali. Qualche dubbio, peraltro, permane e sembrerebbe giustificato dalla modalità e dalla prudenza con cui tanto il presidente del Consiglio quanto il ministro dell’Economia sembrerebbero aver affrontato anche il tema delle nomine. Se fosse un dubbio fondato (il che è ancora tutto da dimostrare), si aprirebbe una interessante possibilità e cioè che, lungi dal coincidere, le visioni sul tema di destra e sinistra possano replicare, mutatis mutandis, quelle già registrate negli anni Cinquanta e Sessanta. Da un lato, la scelta centrista di dare ai manager pubblici una ampia libertà di azione consentendo che essi si muovessero in termini praticamente privatistici. Dall’altro, la nascita delle Partecipazioni Statali e con essa la istituzionalizzazione di una diretta influenza della politica sugli obbiettivi, i comportamenti e le pratiche quotidiane delle partecipate ed i conseguenti “oneri impropri” a carico del contribuente.
Non è affatto detto che sia così, ma è una possibilità da non escludere. All’osservatore corre solo l’obbligo di ricordare che la lettura centrista della realtà portò, negli anni Cinquanta e fino alla metà degli anni Sessanta, ad una fase di straordinaria crescita dell’economia italiana laddove la visione implicita nella cultura radicata allora nelle forze di sinistra (ampiamente presenti anche nel partito di maggioranza relativa) condusse ad una distorsione massiccia nella allocazione delle risorse e pose le basi del declino del paese. Qualcosa lascia pensare che non si sia trattato solo di una coincidenza.