nel nord africa
Putin punta su Tunisi. E a Meloni non resta che sperare che questo allarmi gli Usa
La crisi tunisina si fa sempre più preoccupante. La morte terribile di un calciatore spalanca scenari da primavera araba. Intanto Mosca rafforza la presenza dei suoi servizi militari. I colloqui tra Tajani e Ammar. Le incognite su migranti e gasdotti. Saied traballa
Il parallelismo è raggelante. E sì che la morte di Nizar Aissaoui sarebbe tragica già per quel che è. Ma inevitabilmente finisce per diventare ancora più terribile per quel che pare possa rappresentare. Perché una morte analoga, avvenuta dopo essersi dato fuoco, fu pure quella che innescò le primavere arabe, dodici anni fa. Sempre in Tunisia. Sempre a seguito di crescenti proteste di piazza. Basterebbe questo, e basterebbe l’ansia con cui la nostra diplomazia evoca il paragone, per dire della preoccupazione che si respira alla Farnesina e a Palazzo Chigi sui destini di Tunisi. Ma non basta. Perché, a complicare il quadro, ci si mette anche Vladimir Putin. Che qualche settimana fa, in modo un poco inaspettato, ha mosso una sua pedina sul tribolato scacchiere maghrebino.
La notizia ha infatti ancora i connotati dell’ufficiosità, ma un report dello European Council on Foreign Relations l’ha rilanciata giorni fa, e quel documento è stato letto con interesse dai vertici delle nostre feluche. Il Cremlino, insomma, avrebbe promosso l’ambasciata russa a Tunisi a quartier generale per il Nord Africa del Gru, il servizio segreto estero militare. In un’area, quella del Maghreb, dove del resto Mosca ha, e continua a voler mantenere, interessi strategici: con l’Egitto, con l’Algeria, e nella vicina Libia, centro nevralgico da cui partono molte delle missioni della brigata Wagner verso il Sahel. Forse è anche per capirci di più che il ministro della Difesa, Guido Crosetto, sta preparando un suo imminente viaggio a Tunisi.
Di certo c’è che, per paradosso, l’attivismo di Putin può dare forza alla voce con cui Antonio Tajani, e insieme a lui Giorgia Meloni, provano a farsi sentire dagli alleati euroatlantici, invero riluttanti ad ammettere la necessità di intervenire in Tunisia. Lo si è capito nei giorni tra marzo e aprile, quando per due volte l’ambasciatore americano a Tunisi, Joey Hood, ha voluto incontrare il suo omologo italiano, Fabrizio Saggio, a seguito dei contatti tra i ministri degli Esteri russo, Sergei Lavrov e tunisino, Nabil Ammar.
Il quale, anche sulla bussola strategica del regime di Saied, ha dato rassicurazioni a Tajani, durante gli incontri svoltisi a Roma tra mercoledì e giovedì. E certo, per l’Italia le incognite tunisine sono gravi e numerose. C’è quella legata alla crisi migratoria, ovviamente, con previsioni di flussi e di sbarchi che al Viminale vengono elaborate con apprensione. Ma c’è anche, ed è finora risaltata meno nei resoconti, quella energetica. Dalla Tunisia passa il Transmed, il condotto che dall’Algeria porta fino in Italia 60 milioni di metri cubi di gas al giorno. Significa un quarto del fabbisogno medio, ed è un tassello del futuribile “Piano Mattei”. Un progetto di cui farebbe parte anche un’ambiziosa infrastruttura a cui sta lavorando Snam, e su cui c’è un grande interesse tedesco, per portare – a partire dal 2026 – idrogeno dalla Tunisia fino alla Germania. Per arrivare poi a Elmed, il cavo sottomarino che Terna intende realizzare per rifornire, in direzione opposta, la Tunisia di energia elettrica.
Tutto, però, sotto la grossa incognita del destino di Kais Saied. Del prestito da parte del Fmi – 1,9 miliardi di dollari – il presidente avrebbe estremo bisogno. Ed è forse la via obbligata con cui l’Ue e la Nato possono far valere la propria influenza, se è vero che al momento ciò che Putin non può, e nessun altro vuole, mettere sul tavolo, sono appunto i soldi. Ma americani ed europei vanno convinti: e l’obiettivo è ancora lontano, come deve aver constatato anche Giancarlo Giorgetti, in questi giorni, nei suoi colloqui a Washington. Anche perché, ed è un altro elemento molto chiaro al governo italiano, nessun ministro tunisino può fornire davvero delle garanzie che l’autocrate Saied non smentisca l’indomani. Specie in una situazione di crisi sociale sempre più esasperata, con piazze cariche di manifestanti e di tensione, e un sindacato, l’Ugtt, che sceglie ogni giorno posizioni più radicali. Forse è per questo che la morte di Aissaoui – che pure è l’ennesima, di questi tempi, che avvieni con questi metodi – evoca paragoni terribili col 2011. Allora fu un fruttivendolo ventiseienne, Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco in segno d’estrema protesta contro la corruzione della polizia. Stavolta, Aissaoui, calciatore di 35 anni, è morto a seguito di un’agonia causata da analoghe ustioni, dopo essersi immolato per denunciare un’accusa a suo dire infondata, quella di terrorismo, di cui era stato fatto oggetto dalla polizia per avere inveito contro un fruttivendolo che vendeva banane a prezzi maggiorati.