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25 aprile

"O patriota, portami via". La debolezza culturale nella polemica sulle strade di Bologna

Nicola Pedrazzi

Nel caso delle vie intestate ai Caduti per la Liberazione la “dotta” di oggi si mostra città fragile, come una provincia qualsiasi. Come l’Italia, che non sa più riconoscere la testimonianza storica della Resistenza

Passano gli anni, ma il 25 Aprile continuiamo a festeggiarlo male. La sinistra sa che sotto sotto la destra vorrebbe diluire il senso della Liberazione nei sentimenti di altre feste nazionali (Meloni direbbe: patriottiche); sotto sotto la destra sa che la sinistra vorrebbe avere ancora una festa di partito (Schlein direbbe: partigiana). Queste irrisolte (e in parte fondate) accuse reciproche sono lo sfondo di una recente polemica bolognese sulla sottotitolazione da dare alle vie intitolate ai partigiani. Emblematica del momento culturale che stiamo vivendo.

Riassumo brevemente l’accaduto. Con la delibera del 7 marzo scorso il comune di Bologna ha preso atto che le 78 strade dedicate “ai nominativi legati alla lotta partigiana di Resistenza” riportano qualifiche diverse (“patriota, patriota del secondo Risorgimento, caduto per la liberazione, partigiano”), e ha quindi scelto di uniformare tutti i sottotitoli dei cartelli stradali: con la sola qualifica di “partigiano” e la corrispondente onorificenza militare. Per capirci: “Gastone Rossi, caduto per la Liberazione” diventa “Gastone Rossi, partigiano, medaglia d’oro al valor militare (1928-1944)”. 

 

“Partigiano” sostituisce “patriota” solo in un paio di cartelli, ma  è su questo che si sono accaniti i giornali locali

 

A conti fatti la parola “partigiano” sostituisce la parola “patriota” solo in un paio di cartelli, ma naturalmente è su questa casistica che si sono accaniti i giornali locali, ai quali non è parso vero, Meloni regnante, di poter giocare per qualche giorno con i concetti di Patria e Resistenza (per darvi un’idea della cialtroneria del “dibattito” vi basti sapere che il primo articolo pubblicato da Repubblica Bologna, dal titolo “Via la parola patrioti dai nomi delle strade. Saranno chiamati tutti partigiani” riportava la foto del cartello di via Zamboni: un patriota pre risorgimentale morto nel 1795 e ovviamente non interessato dalla delibera). Di conseguenza il sindaco Matteo Lepore ha avuto gioco facile nel denunciare la pretestuosità delle polemiche e nel ribadire – come sempre si fa in questi casi: rispondendo su Twitter a Carlo Calenda – che “chiamiamo partigiani i partigiani. Non aggiorniamo altro. I cartelli avevano le definizioni più disparate pur di non chiamarli con la loro qualifica. I patrioti rimangono patrioti. Anzi stiamo pure progettando il Museo di Risorgimento e Resistenza. Se interessa siamo qua”.

Conoscendo il difficile contesto nazionale, un’amministrazione attenta alla comunicazione com’è l’amministrazione Lepore aveva tutto il modo di proteggere la sua decisione opinabile dai prevedibili “e allora viale Lenin?” che i consiglieri di Fratelli d’Italia non vedono l’ora di berciare alla prima occasione, come se sommando due idiozie l’idiozia si annullasse invece che raddoppiare. La giunta poteva ad esempio scrivere meglio la delibera, fornendo una lista chiara delle diciture che si sostituiscono (l’Allegato A, scaricabile dal sito del comune, specifica solo le nuove sottotitolazioni, non quelle a cui si rinuncia).

Poteva pubblicare le ragioni, il contesto e le riflessioni che hanno portato a questa iniziativa (quali storici e quali documenti sono stati consultati?). Soprattutto poteva e doveva tenere in maggior considerazione l’affezione che tutti i bolognesi hanno per la parola “caduti”. A Bologna l’appuntamento in piazza ce lo diamo “sotto ai caduti”: un sacrario nato spontaneamente in piazza Nettuno, quando all’indomani della Liberazione gruppi di donne iniziarono ad affiggere le foto dei cari scomparsi, in corrispondenza del muro su cui i fascisti fucilavano i partigiani. Un muro che a metà anni Cinquanta il sindaco comunista Giuseppe Dozza intitolò – guarda un po’ – ai “Caduti della Resistenza per la libertà, la giustizia, per l’onore e l’indipendenza della patria”.

 

La giunta poteva tenere in maggior considerazione l’affezione che tutti i bolognesi hanno per la parola “caduti”

 

Se questa è la sensibilità diffusa dei bolognesi, viene da chiedersi che senso abbia rinunciare alla parola “caduti”, che ha il pregio di includere tutti coloro che donarono la propria vita, e alla parola “Liberazione”, che invece indica in maniera puntuale la motivazione di quella scelta (esistono partigiani anche in altre epoche e in altri quadranti geografici, mentre la Liberazione con la maiuscola rimarrà sempre e solo il 25 aprile italiano). Viene da chiedersi da dove viene questo bisogno di uniformità (peraltro, è curioso, venata di militarismo).

Viene da chiedersi se ha senso prendere questa china, in una città così stratificata, dove la maggior parte delle vie partigiane corre in un quartiere chiamato “Cirenaica”. Infine, quand’anche si sia trattato di un’accusa pretestuosa, valeva la pena esporsi, in questo momento nazionale, al rischio di regalare la parola “patriota” alla destra? (errore antico, risalente agli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, che fu concausa, e non delle minori, dell’affermarsi del fascismo).

L’unica risposta che si trova a queste domande è nella temperie culturale della contemporaneità, in cui il sindaco di Bologna ha il dovere di muoversi, per carità, mantenendo però anche il dovere di non far evaporare qualsiasi forma di complessità. I politici contemporanei predicano, soprattutto a sinistra, il rispetto delle differenze, ma soprattutto a sinistra tendono ad abolirle con un rullo compressore fatto di banalità e paura. I giornalisti contemporanei invece tendono a descrivere le cose non per quello che sono (una cattiva politica sulla memoria) ma per come è utile raccontarle rispetto alle priorità della comunicazione (il derby tra patria e partigiani). Rendiamo identitario e astorico qualsiasi dibattito, solo perché gli algoritmi, editori di tutti noi, hanno bisogno di moltiplicazioni e cancellazioni.

La contrapposizione tra patrioti e partigiani non è un fatto reale. Di questa distinzione non vi è traccia nelle operazioni di memoria più vicine allo svolgimento della Resistenza, per il semplice fatto che gli stessi partigiani non la concepivano. Per rendercene conto possiamo affidarci a un qualche podcast di un qualche Barbero che ci allevia l’ignoranza raccontando che i comunisti combattevano nei Gap (i “Gruppi di azione patriottica” formati dalle Brigate Garibaldi), ma forse sarebbe meglio ascoltare direttamente i partigiani, ad esempio sfogliando le Lettere dei condannati a morte della Resistenza.

“Possa il mio grido di “Viva l’Italia libera” sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte; per il bene e per l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera, per le quali muoio felice” (Franco Balbis).
“Vi giuro di non aver commessa nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata Patria”  (Antonio Brancati).     

“I miei piccoli sappiano quanto li ho amati, e siano educati alla coscienza del dovere e all’amore della‬ Patria” (Umberto Lusena)
“Sono perfettamente sereno nell’adempiere il mio dovere verso la Patria, che ho sempre servito da soldato senza macchia e senza paura, sino in fondo” (Ygo Macheraldo).  
“Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui... fra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse” (Irma Marchiani).
“Ti lascio un nome intemerato che ha una sola colpa: avere amato la Patria!” (Luigi Mascherpa).
“Fatevi coraggio. Credo in Dio. Il mio sangue lo offro per la vostra felicità e per l’avvenire della nostra povera‬ Patria” (Renato Molinari).
“L’amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale” (Giancarlo Puecher).
“Cari compagni, questi fascisti ci vogliono uccidere a ogni costo ma io muoio volentieri per la Patria libera”‬. (Erasmo Venuti).
“Ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d’Italia, la mia Patria” (Lorenzo Viale).

La varietà politica e morale del biennio 1943-1945 può essere la ragione di una toponomastica che nel dopoguerra fu altrettanto varia, ma se così è va studiata più che uniformata. Paradossalmente, la brutta delibera del mio sindaco mi ha offerto l’opportunità di farlo, almeno un pochino. Ad esempio sono andato a vedere come chiamiamo chi contribuì alla Resistenza senza imbracciare le armi. La comunista Giovanna Zaccherini Alvisi è definita dal suo cartello “perseguitata politica”: è corretto perché fece la galera tra gli anni Venti e Trenta, ma dopo l’8 settembre aiutò i partigiani in ogni circostanza, curandoli all’interno dell’Ospedale Sant’Orsola o portando loro messaggi e materiali. Sarebbe interessante ricostruire quale politico negli anni Settanta decise di definirla “perseguitata” e non in un altro modo: avrebbe senso capirlo, non uniformare il cartello, che ci è utile proprio perché diverso, anche se non v’è dubbio che quella dicitura trascura la sua identità di partigiana.

 

L’operazione uniformatrice  appare una scelta affrettata, fatta solo per assecondare le pressioni dell’Anpi di oggi

 

Nella lista della delibera non è compreso nemmeno don Giovanni Fornasini, uno dei parroci di Marzabotto: deduco quindi che lui rimarrà un “Caduto per la Liberazione”. Per quale motivo? Perché non ha sparato? Ma se il criterio del riconoscimento dello status di partigiano è l’avere sparato all’invasore tedesco e al suo alleato fascista, allora dovremmo dotare di questo sottotitolo anche i Caduti di Cefalonia, cui abbiamo dedicato una via per ricordare un episodio enorme – e certo non unico – della cosiddetta “resistenza militare”. E in via Osoppo cosa dovremmo scrivere, trattandosi di una brigata certamente sia partigiana (perché ha combattuto contro tedeschi e fascisti) che patriottica (perché si è opposta alle mire espansionistiche jugoslave, diversamente da altre componenti “partigiane”)?

Insomma, più si approfondisce e più l’operazione uniformatrice promossa da una città medaglia d’oro della Resistenza appare per quello che è: una scelta affrettata, non sorretta da alcun pensiero elaborato, fatta solo per assecondare le pressioni dell’Anpi di oggi, che infatti ha ringraziato come se finora quelle strade non fossero state intestate ai partigiani, come se fosse realmente esistita un’omissione. Al Pd bolognese tutto questo serve solo a inscenare un locale argine partigianesco alla “terza fiamma” attualmente di governo. È il secondo tempo della propaganda a cassa di risonanza nazionale che abbiamo già visto all’opera durante la concessione di un giuridicamente nullo “ius soli cittadino”. Il metodo è lo stesso.

Per riprendermi dai dispiaceri contemporanei, su consiglio del mio papà ho aperto il Diario di Emanuele Artom: un partigiano ebreo di Torino, che ha combattuto la Resistenza nelle brigate di Giustizia e Libertà in Val Pellice, e che venne catturato, torturato e ucciso dalle SS italiane nel marzo-aprile 1944. Un vero balsamo per i pruriti del conformismo e della cancellazione. Per descrivere la sua condizione, a distanza di 11 parole Artom usa come sinonimi “bandito” e “partigiano”.

La vita di un bandito è molto complicata e succedono infiniti incidenti. Per esempio ieri un partigiano ubriaco litiga con un carabiniere e vien portato in carcere per qualche ora, poi rilasciato. Un altro ingravida una ragazza. Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova retorica non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi; siamo quello che siamo: un complesso di individui, in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini”.

Ma se gli uomini sono uomini allora non c’è differenza? Furono tutti uguali? Assolutamente no. Il diario lo rivela poco dopo:

“Ora comprendo la gravità di aver ucciso qualche prigioniero. Ora capisco come sarebbe stato meglio ricordagli che i Tedeschi uccidono i partigiani catturati, poi puntargli la rivoltella, graziarlo e trattenerlo un’ora a spiegargli la certa sconfitta di Hitler e le ragioni della nostra resistenza. Poi congedarlo. Se tornava fra i fascisti poco male: uno più o meno fra tanti non conta, ma c’era qualche probabilità che si ravvedesse, che ci restasse amico. Almeno davanti alla popolazione e alla storia si sarebbero rese note le differenze fra i due metodi”.

 

Nella testimonianza storica, partigiano e patriota sono due sinonimi. Ricordacelo risolverebbe molti problemi 

 

Trovare un sottotitolo per ricordare una figura così non è un’impresa facile, me ne rendo conto. Non è facile incarnare poteri pubblici. Non è facile selezionare memoria nelle complessità della Storia. Quello che invece è molto facile, per lo meno per chi ha a cuore i valori espressi nella Costituzione, è vedere in Artom un padre della patria. Nella testimonianza di Artom, nella testimonianza storica della Resistenza, partigiano e patriota sono due sinonimi. Ricordacelo risolverebbe un sacco di problemi.

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