nuova leadership
La rivoluzione pigra. Il peso del Pd sulle spalle di Elly Schlein
La questione cattolica, l’estraneità, il faticoso ritorno dalle vacanze. Così il significato delle parole, il peso della storia e l’importanza delle culture politiche influenzano la segreteria
Per molti anni gli osservatori – o perlomeno quella piccola parte di loro non del tutto persuasa dall’idea di far eleggere il vertice di un partito ai passanti, con le cosiddette “primarie aperte” – si sono domandati cosa sarebbe accaduto se un giorno i famosi “esterni”, tanto inseguiti e coccolati sin dai tempi dei primi esperimenti del Pds di Achille Occhetto, avessero scelto come segretario un perfetto estraneo. Ora lo sappiamo. Il problema non è che Elly Schlein abbia espresso in passato posizioni in contrasto con le scelte compiute dal suo partito a tutti i livelli, dalla politica internazionale all’amministrazione locale, dai diritti civili ai rifiuti: è fisiologico che un nuovo gruppo dirigente imprima una svolta alla linea politica seguita fino a quel momento (ed è altrettanto fisiologico che su alcuni argomenti sia il nuovo leader ad adeguarsi). Il punto è che qui non c’è nessun nuovo gruppo dirigente e nessuna svolta, per la semplice ragione che i veri vincitori dell’ultimo congresso sono stati il segretario uscente, Enrico Letta, regista di tutta l’operazione che ha riportato Schlein nel Pd appena in tempo per farla candidare, e Dario Franceschini, che non perde un congresso dal 2009 (e solo perché nel 2009 il candidato era lui, il che gli rendeva tecnicamente impossibile schierarsi col vincitore). Non a caso a loro sono andate le uniche due posizioni di un qualche valore per un partito collocato all’opposizione: il capogruppo alla Camera, Chiara Braga (a Franceschini) e il capogruppo al Senato, Francesco Boccia (a Letta).
A questo punto però bisognerebbe aprire una lunga digressione sul significato delle parole, sul peso della storia e sull’importanza delle culture politiche nel Partito democratico. Bisognerebbe chiedersi quanti decenni il centrosinistra prima e il Pd poi hanno perso dilaniandosi tra laici e cattolici, ricordare gli ingloriosi tempi in cui Paola Binetti faceva due interviste al giorno e Beppe Fioroni (uscito in questi giorni dal Pd proprio in polemica con Schlein) era la reginetta di tutti i retroscena, tempi in cui sui diritti civili non si riuscivano a varare nemmeno leggine men che minimaliste, dopo mesi di trattative sfibranti, che partorivano ogni volta un nuovo acronimo più anodino del precedente, dai Pacs ai Dico. E cosa dire di tutti gli allarmi lanciati dagli esponenti del Partito popolare e poi della Margherita, nella interminabile fase di avvicinamento all’unificazione con i Ds, sul rischio di una egemonia della sinistra e di una deriva radicale che avrebbe spaventato i moderati, allontanato i cattolici e tradito il vero spirito dell’Ulivo, e poi dell’Unione, e poi del Pd? Ebbene, non è meraviglioso che la leadership del Pd più nettamente schierata su posizioni radicali in tutti i campi, e specialmente in tema di diritti civili, favorevole addirittura alla maternità surrogata (altro che Dico), sia stata promossa dagli ultimi due vicesegretari del Partito popolare di Franco Marini?
Non è illuminante? Non vale cento discorsi, analisi, ricostruzioni e dissertazioni storico-ideologiche sulle radici del Pd e i valori della sinistra, la questione cattolica, le tradizioni, i principi non negoziabili e i compromessi possibili? (Ve l’avevo detto che la digressione sarebbe stata lunga: ora tornate indietro e riprendete il filo da soli, oppure andate avanti lo stesso senza preoccuparvi di quel che avevamo detto prima e del nesso con quanto diremo adesso, dimostrando così di avere colto l’essenziale del discorso, e soprattutto del Pd). Il problema non è dunque che Schlein abbia preso in passato posizioni lontane o anche opposte a quelle del novanta per cento dei gruppi dirigenti nazionali e locali del suo partito, a cominciare dai suoi grandi elettori. Né ha molta importanza in quale misura e con quali parole abbia deciso di correggerle, quando abbia deciso di farlo (ad esempio sulla guerra in Ucraina), quando no e quando ni. Il punto è che di questo problema – il rapporto tra le sue posizioni personali e quelle del suo partito – sembra proprio che non gliene freghi niente. Proprio come se fosse un’estranea, capitata lì per caso, arrivata da appena un paio di mesi e anche già abbastanza stanca, tanto da avere concluso la conferenza stampa di presentazione della sua segreteria, lo scorso 7 aprile, con un singolare annuncio, inevitabilmente destinato ad attirarle contro infinite ironie: “Non mi sono fermata dal 26 febbraio, comincio a risentirne, prendo una pausa per staccare, riposare e tornare a fare tutto il lavoro enorme che ci aspetta”.
Di qui, due settimane dopo, gli incongrui titoli dei giornali sul “ritorno di Schlein”, per il semplice fatto che, dopo dieci giorni di meritato riposo, avesse ripreso a rilasciare delle dichiarazioni e a commentare gli atti del governo. Di qui analisi assai sofisticate della sua strategia, incentrate sul tema bertolucciano dell’assenza più acuta presenza, come quella di Stefano Cappellini su Repubblica di lunedì (“L’assenza è presenza: i silenzi di Schlein e i nodi irrisolti che spiazzano il Pd”), ma anche commenti più critici, come quello di Roberto Gressi sul Corriere della Sera di ieri (“Elly, circonlocuzioni e arabeschi, così prova a non farsi incastrare”), dedicato in particolare alla conferenza stampa convocata giovedì, per segnare con più evidenza il ritorno in campo della segretaria. Scelta singolare nella tempistica, perché alla vigilia della prima riunione della nuova direzione, ma ancor più nel merito, considerando il contenuto. Qualcuno, più paziente di me, ha contato trentatré “diciamo” nelle sue risposte, come gli anni di Cristo. Io, più pigro, mi sono limitato a contare le risposte: neanche una. Schlein non ha chiarito infatti quale sia la posizione del Pd sulla maternità surrogata (su cui pure, nella campagna congressuale, si era detta favorevole, e qui invece se l’è cavata con una lunga circonlocuzione sul necessario confronto con “tutti i femminismi plurali”, salvo poi, incalzata, confermare di essersi sempre espressa a favore, ma sottolineando anche di non aver inserito il tema nella mozione congressuale, come prova della disponibilità al confronto); non ha chiarito cosa pensi del termovalorizzatore di Roma, né dei termovalorizzatori in generale (arabesco anche qui), persino alla domanda se fosse favorevole o meno all’abbattimento dell’orsa JJ4 è riuscita a non rispondere, trincerandosi dietro l’imminente decisione del Tar (una specie di “non ho letto le carte” applicato per la prima volta al mondo animale).
Mai vorrei però che i miei giudizi e magari anche i miei pregiudizi finissero per condizionare impropriamente il lettore. Dunque, a titolo di esempio, mi sembra giusto fornire la trascrizione integrale della risposta fornita da Schlein alla domanda se fosse favorevole o no al termovalorizzatore di Roma. Eccola: “Il termovalorizzatore di Roma è una scelta che era stata già, diciamo, presa dall’amministrazione di Roma, che ha già approvato anche il suo piano rifiuti, e questo è successo ben prima che vi fosse un congresso, con le primarie, e quindi prima anche che si insediasse questa nuova segreteria; non era oggetto del nostro programma, diciamo, delle primarie; mi è già capitato anche in passato di dire che questo dibattito mi pare sia partito dalla fine, cioè il termovalorizzatore; a noi interessa oggi, diciamo, contribuire, accompagnare anche l’amministrazione, su tutto ciò che deve venire prima, cioè una strategia forte ed efficace che punti su, diciamo, i principi dell’economia circolare così come anche stabiliti dalle normative europee e quindi su come riusciamo complessivamente a ridurre i rifiuti, ad aumentare la raccolta differenziata, a recuperare le materie prime e seconde con gli impianti che servono naturalmente per farlo, per poi ciò che residua capire, diciamo, con quale impiantistica e per quali quantità gestirlo; ecco, questa è l’idea, e lì, appunto, l’amministrazione ha già fatto una sua scelta, peraltro un’amministrazione che, devo dire, ha ereditato una situazione molto complessa in questa città; dopodiché a noi interessa, siccome anche qui, diciamo, nelle primarie noi non è che abbiamo mai assunto, diciamo, una posizione contro la procedura che è già in corso, ma siccome esistono sensibilità diverse persino all’interno del nostro partito io mi impegnerò, diciamo, a favorire, come ho sempre detto dall’inizio, un confronto nostro con i nostri amministratori, un confronto anche tra di loro, naturalmente, un confronto con la cittadinanza, insomma, per capire il come, ecco: con quali tecnologie, con quali compensazioni, con quali quantità”.
Niente male per una leader giovane, radicale e innovativa, da tanti apprezzata proprio per la sua dichiarata lontananza dagli stanchi riti di partito, dai tatticismi e dal politichese. Mi chiedo solo, dinanzi a una simile risposta, se i numerosi estimatori di Schlein saprebbero ripeterla con parole loro. Una cosa, però, la segretaria del Pd l’ha detta con chiarezza cristallina, e più volte nel corso di tutta la conferenza stampa: “Sono arrivata da un mese, no? Posso rispondere di quello che faremo di qui in avanti, difficilmente di quello che è stato già deciso o fatto precedentemente”. È la risposta più chiara, forse l’unica, ma è soprattutto una risposta rivelatrice, anche psicologicamente. E non solo perché i mesi sarebbero due. Come sarebbe a dire che può rispondere solo di quello che il Pd farà di qui in avanti? In che senso? Prima di lei, il diluvio? È davvero una strana concezione della responsabilità politica. Si direbbe, piuttosto, un’idea di responsabilità tipica degli adolescenti, convinti che il mondo cominci con loro. Un’idea che però fa a pugni con tutte quelle professioni di leadership collettiva e plurale con cui pure Schlein continua a presentarsi, per non parlare di tutta la retorica (non solo sua, intendiamoci) sul partito come “comunità”. L’idea che l’elezione di Schlein segni una sorta di anno zero, e che lei non debba dunque rispondere di nulla, è il sogno di qualunque leader politico, e direi pure di chiunque si trovi a dirigere anche la più piccola organizzazione o l’ultimo degli uffici.
Può essere solo una piccola furbizia, o magari una grande ingenuità, o un misto delle due cose, ma forse in quella reiterata professione di non responsabilità per il passato – dove il passato peraltro comincia praticamente cinque minuti prima – c’è anche l’altra faccia di quell’estraneità, di quella lontananza e di quella diversità che l’hanno fatta apprezzare e persino eleggere. Volendo, avrebbe potuto dire ai giornalisti anche di più. O forse l’ha proprio detto e siamo noi che non l’abbiamo capito. Forse quando ha detto di essere appena arrivata, e tutti abbiamo pensato intendesse “alla segreteria”, forse invece no, forse intendeva proprio nel Pd, di cui ha preso la tessera dopo essersi di fatto già candidata a guidarlo. Del resto, le prime parole a commento della sua inaspettata vittoria sono state proprio: “Non ci hanno visto arrivare”. Ed è un peccato che nessuno tra i presenti abbia avuto la prontezza di domandare: “Scusi, segretaria: loro chi?”. A volte si ha quasi l’impressione, tuttavia, che la prima a non aver visto arrivare la sua vittoria sia stata proprio lei, e che tutto considerato non ne sia nemmeno così entusiasta. Di sicuro non capita spesso di sentire un leader politico dichiararsi stanco e bisognoso di una pausa appena due mesi dopo la sua elezione, come fosse una brutta sorpresa capitatagli tra capo e collo quando meno se l’aspettava, quando aveva meno tempo e meno energie per occuparsene, o semplicemente altri programmi. Un atteggiamento che peraltro non si sposa benissimo con le vibranti dichiarazioni pronunciate al ritorno, su tutte le cose gravissime accadute nei giorni precedenti.
È anche una questione di tono. Se hai deciso di alzare la voce per denunciare rischi di involuzione autoritaria, quali che siano le tue ragioni, e tanto più se hai effettivamente buone ragioni per farlo, rivendicare il diritto di “staccare” per una decina di giorni, e di conseguenza occuparti della crisi democratica al rientro, può suonare, come dire, non pienamente convincente. La storia insegna che la rivoluzione si può fare al ritorno dall’esilio, dal confino o da una disfatta militare. Non al ritorno dalle vacanze.