(foto Ansa)

l'analisi

Il progetto di Calenda e Renzi non è riuscito a esprimere un'identità riconoscibile. Tornare al 2019

Silvia Berti

Il Terzo polo e l'identità non riconoscibile: come riportare in vita una cultura politica basata su giustizia e libertà

Gli ultimi giorni sono stati molto dolorosi per chi ha vissuto dall’interno di una speranza politica lo scontro finale tra Calenda e Renzi, davvero non degno delle qualità di entrambi. Non voglio parlare delle pieghe (piaghe?) distruttive che hanno preso il sopravvento, voglio raccontarvi un sogno. Un mio vero sogno notturno che dirà forse tutto quanto vorrei comunicare. Ho sognato che, intorno a una tavola allegra, Valiani e Draghi si scambiavano ricordi e racconti su La Malfa e su Ciampi (mischiando probabilmente quanto avevo ascoltato molti anni fa dalla viva voce di Valiani con le parole dedicate da Draghi a La Malfa nel suo intervento alla Camera del novembre 2021). Ognuno, si sa, ha l’inconscio che può. Ma l’effetto consolatorio e riparatore del sogno è stato profondo e immediato, per quanto non durevole. Forse non era solo un sogno. Forse indicava una strada da ripercorrere. 

In un articolo di qualche giorno fa (il Foglio, 14 aprile), Giuliano Ferrara ironizzava sull’introduzione, all’interno dell’ex Terzo polo, della locuzione sino-sovietica “partito unico” (effettivamente inquietante), indicando quanto rilevanti e creative siano state nella storia italiana non troppo lontana le vicende politiche fieramente laiche e minoritarie di La Malfa e Pannella, svincolatesi dalla morsa congiunta della Chiesa cattolica e di quella comunista.   

 

La crisi attuale nasce dall’incapacità di esprimere un’identità riconoscibile. Nel novembre del 2019, quando la nuova creatura politica stava prendendo forma, la direzione era piuttosto chiara: Calenda parlava di sé come di un socialista liberale, di matrice rosselliana, e il nascente partito (che allora discuteva ancora con libertà e con passione, nelle sale lunghe e strette di via Rubattino, a Testaccio) si sarebbe ispirato al vecchio Partito d’azione e alla qualità della sua classe dirigente (da cui poi la scelta del nome Azione). Era un’idea coraggiosa e nuova, degna di essere coltivata: riportare in vita una cultura politica basata sull’inscindibile binomio di giustizia e libertà, cancellata per decenni dall’autocelebrazione dei partiti di massa. Da allora mi sono impegnata a creare un serio, per quanto informale e limitato, lavoro di formazione politica. Quello che Rosa Luxemburg chiamava “il lavoro delle coscienze”, l’unico lavoro politico che esista davvero. Come che vada quest’esperienza, considero comunque un acquisto che iscritti giovani e meno giovani, sostenuti da Zoom nel chiuso della pandemia, da Torino a Messina, da Treviso a Roma, sappiano oggi qualcosa di più su Gobetti e Rosselli, su Ernesto Rossi e Calamandrei, su Spinelli e Mattioli. 

 

Il progetto originario non c’è più, almeno dai primi di agosto 2022. In quei giorni Calenda ha purtroppo trasformato un suo straordinario successo politico (la firma di Letta al suo testo programmatico) nell’inizio di una frana e in una frattura non ricomponibile. Molti dei primi iscritti non sarebbero più tornati, e lo smarrimento crescerà dopo l’arrivo di alcune “figure apicali” (!) provenienti da FI e direttamente catapultate da qualche drone nella Segreteria del partito. 

 

Negli ultimi mesi, Azione è stata preda di due ossessioni, una politologica, e una, per così dire, “topografica”: quella della necessità per il partito di crescere, in tempi molto brevi, almeno fino al 10 per cento, e la costruzione di un “centro”. In questo modo, una considerazione politologica si è trasformata in un dovere politico, costringendo il partito a pagare un prezzo troppo alto: mettere in secondo piano la costruzione di un’identità politica forte e riconoscibile. E per che cosa poi? E dove altro succede? Viene in mente a qualcuno il caso di un partito liberale europeo che voglia fondersi con il suo omologo popolare? Tanto più quando in materia etica si consideri che in fondo si può delegare il tema a chi è più vicino a una posizione religiosa. In un attimo si scivola nel confessionalismo. Si possono fare alleanze di governo, ma la ragion d’essere di un partito è un’altra cosa. 

 

Per chi è nato in questo paese, il centro è il centrismo, la palude democristiana, un’Italia conservatrice che allontanava da sé l’esperienza liberatrice della Resistenza. Voglio ricordare le parole di Leo Valiani, che già nel ’48 aveva tracciato un ritratto acutissimo di quanto stava avvenendo: “Lo stato italiano eliminava dal suo corpo la rivoluzione antifascista e riassorbiva quei fascisti che abiuravano la rivoluzione mussoliniana” (L’Italia di De Gasperi, Le Monnier, rist. 1982, p. 112). 

 

La canzoncina ufficiale recita che si sta costruendo “il partito dei riformisti, popolari e liberali”. E’ una sintesi che non riesce a convincere. Prima di tutto: il riformismo non è una cultura politica, come il liberalismo o il popolarismo. Nasce all’interno della tradizione socialista, ed è un modo di interpretarla. Forse estendibile anche alle altre culture politiche (per esempio, l’approccio keynesiano è riformista all’interno della tradizione liberale). Non sono di natura sospettosa, ma forse il socialismo non lo si vuole più nemmeno nominare? Sta di fatto che nessuna cultura non conservatrice può esimersi dal tenere insieme giustizia e libertà. Non sarebbe male rifletterci, tanto più che la tradizione azionista contiene degli autentici tesori in materia. E poi, le culture politiche non sono pezzi di Lego che si incastrano e si smontano all’occorrenza. Vogliamo fare dell’ingegneria politica? Bordighismo di centro? O agitiamo i dadi in un bussolotto e poi ci teniamo quello che esce? Le culture politiche vanno maneggiate con cura. Sono il condensato di decenni di battaglie, di sconfitte e di speranze spesso deluse, di vicinanze e di incomprensioni, di lotte intestine mai risolte. Sono soprattutto il legame e lo scontro fra le generazioni, condivisioni e strappi, senza di che non c’è memoria da tramandare, e il rapporto con la storia si fa sempre più evanescente.  Tutto è perduto? Certamente no. Tutti sbagliamo continuamente. Nel caso in questione, basterebbe tornare ai primi detti, alla strada intrapresa nel 2019. Volver. 

 

Ma forse è meglio tornare a dormire, in attesa di un altro sogno riparatore. Intanto, può aiutare il ricordo di un episodio di cui fu protagonista il più fragile e luminoso dei nostri martiri, Piero Gobetti, che in questi giorni di memoria del 25 aprile dobbiamo ricordare. Uno di quegli accadimenti che ci lasciano commossi e stupiti. Nel 1920, a diciannove anni, in piena occupazione delle fabbriche, Gobetti si recò alla Camera del lavoro di Torino a tenere una lezione sul Risorgimento italiano. Malgrado la sua decisa avversione verso il comunismo statalista (o forse in ragione di quella), Gobetti parlò agli operai torinesi del nostro Risorgimento come di un compito ancora non concluso, che grazie alla loro consapevole azione trasformatrice avrebbe potuto portare a compimento la modernizzazione e la storia del paese.

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