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L'Europa taglia il calcio dal Pnrr. Ma anche finanziarsi con Euro 2032 è moneta falsa

Maurizio Crippa

La Commissione europea ha bocciato i progetti di Firenze e Venezia di usare risorse europei per rifare gli stadi. In Europa dal 2010 sono stati costruiti 150 stadi, in Gran Bretagna 17 negli ultimi tre anni. Serve cambiare metodo

Si fa presto a dire che l’Italia ha un problema #opentomeraviglia e che usare la Venere di Botticelli ma pagandola più di una Ferragni è un suicidio. E’ anche vero. Ma di figure barbine l’Italia ne fa a schiovere anche in un altro settore merceologico che rende (o potrebbe) quasi quanto i musei, il calcio: l’idea di farsi dare i soldi per rifare gli stadi – “Ue o Uefa, basta che se magna” – non si è dimostrata migliore della Venere con la pizza. La Commissione europea ha bocciato l’ardito progetto fiorentino di farsi finanziare via Pnrr il restyling del Franchi (impresa del resto già claudicante, la Sovrintendenza sul vecchio e nemmeno particolarmente attrattivo manufatto di Nervi ha messo il vincolo): non rientra nei Piani urbani integrati finanziabili. Stesso destino per il futuribile Bosco dello sport di Venezia. Dario Nardella l’ha presa malissimo, “Firenze subisce un danno grave e ingiusto”, ma era un’idea un po’ tirata.

 

Tant’è che ieri con scatto rapace Matteo Renzi era in piazza della Signoria a lanciare la sfida: “Siamo qui perché è scaduto il tempo, è il momento di abbandonare l’ideologia”, ha attaccato: “Lo diciamo al sindaco Nardella e a Giorgia Meloni. Chiediamo a entrambi un incontro che parte da un dato di fatto: chiedere i soldi europei per lo stadio è una cosa che non ha né capo né coda”. E anche: “Non ha senso pagare con i soldi dell’Europa quello che nelle altre città pagano le società di calcio”. A Venezia, invece, il buon gusto imporrebbe di scusarsi con Luigi Brugnaro e rimettere a tema l’ideuzza di vendersi un Klimt. Eppure solo un anno fa Giovanni Malagò, presidente del Coni, aveva maramaldeggiato sulle sabbie mobili in cui si sta inabissando il nuovo stadio di Milano ed elogiato la strada scelta da Nardella: “A Firenze sullo stadio hanno preso una strada. Una commissione di altissimo profilo internazionale ha tenuto conto di tutte le istanze presenti sul territorio, dalle opposizioni agli ambientalisti e poi ha verificato se ci fosse o no una copertura economica”. L’idea di inserire nel Pnrr gli stadi aveva le gambe corte: “L’Europa non le considera opere di interesse sociale”, ha commentato stizzito il ministro per lo Sport, Andrea Abodi”, per il quale invece “erano progetti più vasti di rigenerazione urbana”. Qualunque cosa significhi. Forse sarebbe ora di smettere di pensare che lo sport professionistico sia una questione sociale e mettere i club nelle condizioni di realizzarsi da soli gli impianti. Il calcio è uno spettacolo, anche redditizio se la burocrazia non cercasse di azzopparlo. Per stare a Renzi, che del resto varò una legge sugli stadi subito affossata dai conservatori di ogni schieramento: “Chi dice che non si può buttare giù le curve non conosce il diritto di questo paese”.

  

“Con tutto il rispetto”, ha detto Renzi, “questa città non può essere di proprietà delle sovrintendenze, deve essere di proprietà dei cittadini e di chi la abita”. Invece, se non è la Ue, è la Uefa. L’altra idea, non nuovissima, per mettere mano al problema enorme è affidarsi alla grande ruota della fortuna dei prossimi Europei 2032. Per i quali la Figc ha presentato il dossier di candidatura “ispirato a un Nuovo Rinascimento”, ha detto il presidente Gabriele Gravina (dev’essere una mania). E il dossier comprende la selezione di dieci stadi, quasi tutti da rifare. Insomma il volano pubblico, l’unico concepibile. E infatti Abodi dice che i dieci stadi vanno rifatti, anche “se non dovessimo ottenere la candidatura”. e ha lanciato l’idea di ri-funzionalizzarli dal punto di vista energetico. Certo, Abodi è responsabile di 80 mila impianti sportivi in Italia, renderli efficienti è suo dovere.

 

Ma i grandi stadi della Serie A? Con che soldi rifarli? Per forza pubblici, per garantirne la proprietà ai comuni? Perché?

 

Parlando con il Foglio due settimane fa, il presidente di Lega Serie A, Lorenzo Casini, ha ricordato che la questione stadi è prioritaria, ma che Euro 2032 “è un’opportunità ma non può essere l’unica possibilità”. Ovvero che la crisi del nostro sistema non è soltanto questione di risorse pubbliche, ma anche di “procedure troppo lente”, di “troppe amministrazioni coinvolte”. Karl-Heinz Rummenigge, bandiera e top manager del Bayern, ha detto: “Fino a quando gli stadi saranno di proprietà dei comuni le cose non potranno cambiare”. In Germania, col Mondiale 2006 fu il governo a prendere in mano il dossier, niente di male in questo: ma oggi ci sono stadi privati ed efficienti. Invece è da Italia 90 – tolti pochi casi virtuosi e/o fortunati – che da noi non solo non si costruisce, ma nemmeno si permette di farlo. Invece, spiegava Casini: “Se lo stadio è di proprietà di una squadra, certamente le procedure possono essere più agili”.

 

Nel 2022 la media dei ricavi da stadio dei top club europei è stata di quasi 70 milioni di euro. Juventus, Milan e Inter insieme hanno racimolato 96 milioni. Eppure si ripete che bisogna affidarsi ai grandi eventi. Invece i pochi stadi privati italiani dimostrano che i fondi disposti a investire ci sarebbero.

 

A Firenze al patron Commisso è stato opposto un niet della Sovrintendenza, ma anche uno stop su progetti alternativi: fino a bloccare investimenti privati per tentare di farsi dare i soldi del Pnrr. Ora secondo il ministro e la Figc il “dossier stadi” dovrebbe sbloccare tutto. E’ ora di capire che liberando mano pubblica e privata all’estero il problema è stato risolto da tempo. In Europa dal 2010 sono stati costruiti 150 stadi, in Gran Bretagna 17 negli ultimi tre anni. Cambiare schema.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"