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25 aprile

Non dite 25 aprile. Siamo un paese moltiplicatore di feste fondative, fra quelle “de sinistra” e quelle “de destra”

Andrea Minuz

Un'Italia divisa e confusa dalle polemiche e dalle tante commemoriazioni. Dalla Liberazione al Lavoro, dal 2 giugno al 4 novembre. Mentre il 17 marzo cade nel dimenticatoio

Sin da bambini cresciuti nella scuola antifascista e democratica abbiamo sempre un po’ invidiato la semplicità, la chiarezza, la gran comodità di festeggiarsi tutti insieme un solo giorno, per esempio gli americani con il 4 luglio o i francesi con la prise de la Bastille. Beati loro. Qui invece sin da subito tutto è più complicato e sfilacciato. Non si hanno notizie, né immagini e ricordi di un 25 aprile senza polemiche. Un “25 aprile tra le polemiche” è un Italian trademark, come Sanremo e la pizza, un repertorio condiviso, un claim da Venere influencer del ministero, “Open to meraviglia: A wonderful country diviso su tutto”. Per esempio, all’università non era proprio chiarissimo come mai i professori non facessero quasi cenno agli americani liberatori, se non con molta insofferenza, e poi si incupivano con le elezioni del 18 aprile 1948, madre di tutte le sconfitte della sinistra italiana, che ci impedirono di diventare come l’Albania. Non era una cosa bella? Non si capiva. Ma il bello delle polemiche del 25 aprile è che ogni anno sono sempre uguali, fluttuando solo un po’ in base alla coalizione di governo. Quest’anno poi, oltre alle destre al governo, ecco anche un lunedì che fa da ponte, aprendo un lunghissimo weekend antifascista sentito da tutta la popolazione, e dunque anche più tempo e giorni per le polemiche, volendo. Il fatto è che bisogna accettare questa festa così com’è: faremo prima a vedere il Ponte sullo Stretto o un Frecciarossa Trapani-Ragusa col wifi velocissimo che un 25 aprile senza polemiche, litigate, moniti, richiami, revisioni storiche o distopiche e controfattuali.

 

Chissà come farà il povero straniero che inoltra domanda di cittadinanza qui da noi, dovendo anche dimostrare “di conoscere la lingua italiana e gli elementi essenziali della storia e della cultura nazionale”. Mondiali a parte, quand’è che dovrà mettersi la mano sul cuore e palpitare per la nazione? Eccolo smarrito davanti a una selva fittissima di feste e commemorazioni. Più che una nazione, sembriamo una startup che riparte sempre da zero. C’è il 25 aprile, che è “la festa di tutti”, ma un po’ più “de sinistra” delle altre, con distinguo, precisazioni, azzuffate sui giornali, fischi alla brigata ebraica (e poi il 25 aprile ha anche questo “after” il Primo maggio, col concertone, che rafforza la sua identità “de sinistra”). C’è il 2 giugno, grande festa democratica, nazionale e di rinascita, ma un po’ più “de destra”, coi carri armati, le Frecce tricolori, i soldati ai Fori imperiali, e si sa che l’esercito non scalda come i partigiani. E poi, come il 25 aprile con il Primo maggio, il 2 giugno fa sponda col 4 novembre, che invece è proprio “de destra”, la Grande guerra, la “bella morte”, il Piave, il generale Diaz (che fa subito macelleria messicana) e una gita fuoriporta al Vittoriale. Ci sarebbe anche il 17 marzo, che in teoria sarebbe la più fondativa di tutte, ma non le si dedica neanche uno sciopero dell’Atac (provate a chiedere a bruciapelo cosa si festeggia). Dunque, caro richiedente asilo o cittadinanza, sappi che da noi “Nato il 4 luglio” con Tom Cruise non si potrà mai fare, però una miniserie, in cinque puntate, “Nato almeno cinque volte”, ecco questa forse si dovrebbe fare (Sangiuliano pensaci).

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