Il racconto
Meloni, scoop e audiotape. Lo spassoso cortocircuito Agi-Chigi
Una notizia data da un giornalista imprevedibile si trasforma in un apologo sul giornalismo e illumina le paranoie del governo. Servizi, poltica estera, comunicazione di Palazzo, complotti all'amatriciana. E' l'Agigate
Una storia così o vale il Pulitzer o il ricovero coatto. E’ l’Agigate o se preferite “Meloni, scoop e audiotape”. E’ una storia, spassosissima, che incrocia Servizi, politica estera (il caso Uss) sfocia nel cospirazionismo italiano più scalcinato, parla dei fantasmi che agitano il governo Meloni. Infine. Racconta questo imprevedibile e magnifico mestiere: il mestiere del giornalista. I fatti. Il 13 aprile, la premier Meloni viene audita al Copasir. Per chi non lo sapesse, si tratta del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.
Al Copasir si discute di intelligence, cose grosse, cose serie. Chi partecipa ha l’obbligo della segretezza. Zitti! Mi raccomando! Lo presiede oggi Lorenzo Guerini, ex ministro della Difesa e deputato del Pd. Lo compongono nove parlamentari, big di partito. Forza Italia, per dire, ha indicato la sua capogruppo al Senato, Ronzulli. FdI ha scelto Donzelli e Augello. Dopo questa breve premessa, il pasticcio. Di nuovo. 13 aprile. Meloni, al Copasir, risponde sulla sparizione del russo Uss, il figlio del governatore siberiano che ha fatto “marameo” agli italiani. E’ un pomeriggio complicatissimo. I giornalisti compulsano le agenzie. Improvvisamente, un’epifania. Quattro lanci, in gergo “take”, appaiono sul sistema. Sono dell’Agi, e li sigla una delle firme che seguono Palazzo Chigi. La notizia. La premier avrebbe dichiarato che la “responsabilità della fuga di Uss sarebbe colpa di altri organi dello stato”. Dire che a Chigi si scateni un terremoto è come dire che i rave party sono serate di liscio. Il presidente del Copasir è infuriato per la fuga di notizie. La premier è infuriata della notizia. Il suo capo ufficio stampa, Mario Sechi, ex direttore dell’Agi, è infuriato che la notizia sia stata data dalla sua vecchia agenzia, senza consultare lui che è ora capo ufficio stampa.
Dovete sapere che in ogni redazione c’è sempre una firma fantasiosa. Sono quei giornalisti che fanno sia la fortuna e sia imbiancare i capelli dei direttori. Credono di possedere la verità sull’oro di Dongo di Mussolini. Alternano le letture dei libri di Asimov con i dossier della Cia . A loro modo sono geniali. I più pericolosi sono i pettinati. Sembrano notai e invece, con un loro lancio (d’agenzia) manca poco e provocano una rivolta in Burkina Faso. Il paradosso è che queste figure, per 363 giorni all’anno, riescono a snervare i direttori così: “Non sono sicuro di queste fonti, io non scrivo”. Il direttore: “Ma se te lo dico io! E’ sicuro. Scriviamola, diamine!”. Il fantasioso: “Giammai”. Il direttore: “Papà, perché questo mestiere? Perché?”. Il problema sono quei due giorni di Luna piena. In quei due giorni, il giornalista fantasioso, può ribaltare la sua naturale condotta e fare cose come questa: quella che ha fatto il giornalista dell’Agi. Assembla quattro agenzie. Le scrive di tutto punto. Non avvisa il direttore, non avvisa neppure il suo caporedattore, digita la sua password, entra nel sistema, e riversa i famigerati lanci online. Puff. In rete. Scoop.
Un’altra cosa che dovete sapere. Da quando Sechi ha lasciato l’Agi per Palazzo Chigi, ad Agi, diciamo, c’è un clima “particolare”. Alcuni birbantelli, i giornalisti dei quotidiani, Foglio compreso, hanno pubblicato il resoconto dettagliato del saluto di Sechi alla redazione. Come facevano i birbantelli a sapere? Un audiotape. Chi lo ha girato ai birbantelli? Indagine interna. I birbantelli del Fatto quotidiano hanno proseguito. Hanno pubblicato screen shot di titoli che riguardavano Meloni modificati successivamente. Ad Agi sono angosciati come quando si è visto per la prima volta l’Esorcista. E ora torniamo al nostro giornalista fantasioso. Perché lo ha fatto senza avvisare i superiori? Si scatenano le congetture: “Qui c’è la mano dei Servizi”; “Ah, ma allora c’è una manovra contro Meloni!”; “No, no. Lo scontro è politico, Lega o FI hanno passato la notizia”; “Io la soluzione ce l’ho! Vogliono indebolire il capo ufficio stampa”. L’altra ancora: “Il giornalista non ha avvisato perché sapeva di essere censurato e dunque lui ha agito per salvaguardare la democrazia. Partigiano”.
Chi non ha svuotato una damigiana di vino, e ha fatto per anni questo mestiere, la smonta così: “Ma quale complotto! E’ solo giornalismo! Un mestiere dove si svalvola”. La “svalvolata” ha però conseguenze. Il nostro “Bob Woodward di Piazza Colonna” viene spostato dalla sezione Interni a quella Esteri, il che fa saltare il cuore ai colleghi degli Esteri: “Ma se ci fa quattro lanci contro Macron? La Francia ci invade?”. Per le regole interne, a ogni spostamento ne corrisponde un altro. Uno degli Esteri deve passare agli Interni. Viene così scelto un giornalista che giustamente voleva stare agli Esteri e che dice: “Ma io non ho fatto nulla”. Il bello è che, a seguire la premier, viene distaccato un nuovo cronista che, date le circostanze, per farsi coraggio, stringe il rosario ogni mattina. La prima sua missione è stata in Etiopia. Vede Meloni abbracciare dei bambini e chiama Roma: “Capo, ma la devo dare o no? Meloni sta abbracciando dei bambini! Che facciamo, capo? Capo?”. Eccoci. Funziona così. Avete in pratica letto un apologo su questo infinito mestiere, sulla politica, e siete entrati, care matricole delle scuole di giornalismo, dentro l’officina del giornalista, il garage dell’impensabile organizzato. Un attimo, una chiamata. E’ il nostro direttore. Ah. Dice che un collega del Foglio, ieri sera, senza avvisare, è entrato nel sistema e scritto questo pezzo sull’Agi e Meloni. Uno screanzato. “Da non crederci! Direttore. Da non crederci!”.