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Giorgia, on my mind

Tutto quello che Meloni non ha detto al Foglio a proposito delle strategie di innovazione

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Anche un leader conservatore può dedicarsi alla modernizzazione tecnologica del paese. Una provocazione su cosa la premier avrebbe pututo dire nel suo colloquio con questo giornale

Caro Direttore,

per non lasciarti il monopolio del ruolo di buontempone che pubblica articoli scritti da ChatGPT, e vedere di nascosto l’effetto che fa (al Garante), ho pensato che la tua interessante intervista alla premier pubblicata il 21 aprile meritasse di essere sottoposta alla pena del contrappasso, sia pure virtuale. E così ho provato a riscrivere, facendomi aiutare dall’intelligenza artificiale, la parte del tuo colloquio con Giorgia Meloni relativa alle prospettate strategie di innovazione del governo. Fantasie per fantasie, mi sono detto, vediamo che salta fuori. Ma poiché sono un cittadino che, sia pure con spirito recalcitrante, vuole essere ligio alle disposizioni di suprema saggezza della nostra Autorità di protezione, la quale ha voluto tutelare me e tutti gli italiani dal periglioso avventurarsi all’interno di siffatti mondi artificiali, mi sono risolto a riformulare quel paragrafo dell’intervista con l’uso della mia ben più modesta, seppure naturale, intelligenza.

 

Ecco il risultato:

“Vede, Direttore, ho apprezzato che il suo giornale abbia colto il pragmatismo delle contraddizioni creative nel mio stile politico, e quindi provo a spiegarle che idea ha dell’innovazione il capo del Partito della Conservazione. Le dirò una cosa che forse farà scandalizzare alcuni dei miei sostenitori, specie se tra di loro figurano bigotti e doppiopettisti. L’innovatore deve avere il coraggio di essere senza dio, senza patria e senza famiglia. Senza dio, se è il dio dei dogmi imposti e non il dio della libera adesione ai valori. Senza patria, se è un’angusta fortezza di xenofobi e non il crocevia degli scambi con il mondo. Senza famiglia, se è un clan di carne e sangue e non una comunità di elezione e merito. L’innovazione ha bisogno di contendibilità delle risorse, non di protezione delle rendite. Nessuno investe per innovare ciò che è congelato per legge o difeso a spada tratta da vecchie corporazioni, siano esse sindacali o professionali. Valorizzare le tradizioni non significa arroccarsi sui vitalizi e coltivare nostalgie passatiste: la migliore lezione viene dal mondo della moda italiana, che propone continuamente riletture creative di modelli classici, alternandole e combinandole con elementi di rottura e segnali di contrasto. Ecco, Direttore, se vuole comprendere il tipo di sintesi tra innovazione e conservazione che ho in mente, provi a pensare ai brand del made in Italy (ho addirittura cambiato nome a un ministero, per farvelo capire…).

Anch’essi parlano di identità, di tradizione e di eredità, ma lo fanno perché il tempo, e in particolare il passato, non è un bene commerciabile, non si può vendere né comprare e – diversamente dal prodotto – non può essere copiato. Poi, proprio grazie all’ancoraggio simbolico ai valori tradizionali espressi dal brand, possono innovare senza snaturarsi, possono proporre nuove collezioni ogni stagione, sorprendendo chi si aspettava solo un catalogo di vecchie stoffe: un po’ come faccio io con i partner europei, se vogliamo…

Vuole una dimostrazione? Sfidando lo scetticismo di molti, ho voluto candidare a capo di Leonardo Spa, uno dei più importanti laboratori di innovazione per il futuro del paese, Roberto Cingolani: tutto meno che un conservatore, uomo di scienza, empirista e antidogmatico. Bene, lo veda come chi volle chiamare Tom Ford a ripensare Gucci. Anche allora qualche inacidita matrona, nostalgica di selle e staffe, nonché di cavalli e segugi, si lamentò, come qualcuno si lamenta oggi. Vedremo chi avrà ragione.

Le faccio un altro esempio: l’Irlanda è un paese caratterizzato da un forte senso di identità culturale e religiosa, eppure ha saputo interpretare un modello di innovazione di successo, attirando con una politica fiscale tanto coraggiosa quanto corsara gli investimenti delle multinazionali; queste non sono una minaccia, ma – se correttamente ingaggiate – diventano apportatrici di capitali, navi scuola per le competenze di management, di ricerca e sviluppo, di accesso ai mercati internazionali, e attirano immigrazione professionale di qualità. Ebbene: nel 1990, il pil pro capite irlandese era circa di un terzo inferiore a quello italiano. Sette anni dopo erano alla pari. Oggi, seppur gonfiato dalle statistiche delle multinazionali, è quasi il triplo di quello italiano. Per quanto peculiare e non ripetibile, la storia di crescita dell’Irlanda, che nel frattempo è rimasta saldamente ancorata ai suoi valori culturali e alla sua identità nazionale, può certamente fornire ispirazione a chi, come la mia maggioranza politica, vuole utilizzare la leva di una fiscalità incentivante per chi investe nello sviluppo del paese. Lo stato non ha certo il monopolio dell’innovazione, anche se nella mia visione deve avere un ruolo attivo di indirizzo, proprio perché, data la struttura del nostro capitalismo, risorse private molto frammentate faticano a convergere su filoni di investimento di fondamentale importanza come la transizione energetica, la trasformazione digitale, l’ammodernamento delle infrastrutture logistiche, il supporto alla ricerca di base. E’ anche per questo che vorremmo reindirizzare i soldi del Pnrr e in generale le risorse dei fondi europei verso lo sviluppo di infrastrutture e tecnologie che supportino l’innovazione, la produttività e la competitività di lungo termine, utilizzando in via prioritaria le partnership pubblico-privato e i crediti d’imposta alle imprese che investono, invece di distribuire i soldi su microprogetti di discutibile efficacia. 

Tutto il mondo riconosce all’Italia un grande patrimonio di creatività, nonostante le statistiche segnalino che l’incidenza degli investimenti in ricerca e sviluppo sia circa la metà della media europea, e una frazione di quelli di Usa, Giappone e Corea del sud. Nell’European Innovation Scoreboard, l’Italia figura tuttora al 92 per cento della media Ue, tra gli innovatori moderati, ma il divario sta diventando più piccolo e rimaniamo nel gruppo di testa per innovazione di prodotto e processo tra le Pmi. Trasformare la creatività in innovazione strutturata è la grande sfida per il nostro paese. La creatività diventa innovazione quando non rimane mera pulsione al nuovo ma si traduce appunto in processi, prodotti, servizi, proprietà intellettuale, trasferimento tecnologico. Compito della politica è offrire le condizioni per incanalare la creatività verso sbocchi competitivi di mercato. Questo richiede un grande sforzo per incentivare la formazione universitaria, che ci vede penultimi in Europa come percentuale di laureati (29 per cento contro una media del 41 per cento) e il supporto fiscale e amministrativo per l’innovazione: scontiamo tuttora un forte ritardo rispetto ai principali paesi in termini di ostacoli burocratici all’innovazione e livello di investimenti in venture capital. Dobbiamo trovare i giusti incentivi affinché l’enorme massa di liquidità dei risparmi italiani che si è trincerata nei conti correnti, esponendosi all’erosione dell’inflazione, si indirizzi verso investimenti di ampio respiro e di lungo periodo, rendendo fiscalmente ancora più attrattivi ed efficienti i piani individuali di risparmio, per alimentare un vivace mercato nazionale dei capitali e sostenere gli investimenti in startup innovative oltre che nel grande patrimonio delle Pmi italiane. Qui il ruolo dello stato non è scegliere i vincitori, gestendo direttamente le imprese, ma creare il miglior campo di gioco, facendo da investitore istituzionale entro una governance di mercato. Che cosa vogliamo fare per l’innovazione, dunque? Innanzitutto recuperare il vero spirito del Pnrr, che è quello di usare la leva del cosiddetto “strategic procurement”, con moltiplicatori di spesa possibilmente ben superiori all’unità: invece di ingrossare le file della burocrazia statale, spiazzando gli investimenti privati, utilizzare la spesa pubblica per indirizzare i progetti di innovazione delle imprese verso un coerente modello di politica industriale e infrastrutturale, basato sui princìpi dell’autonomia energetica, della sovranità digitale, della tutela ambientale, in coerenza con gli obiettivi di sviluppo sostenibile.
Poi vogliamo un welfare che riequilibri il sussidio intergenerazionale, dai nonni ai nipoti. Mi è ben chiaro che l’Italia destina all’istruzione dei nipoti poco più di un quinto di quanto spende per le pensioni dei nonni, e che il trend demografico va ribilanciato con il massimo sostegno alle giovani famiglie e alla partecipazione al lavoro femminile che non penalizzi le scelte di maternità: il primo sostegno all’innovazione di lungo periodo è un paese di giovani adeguatamente istruiti e supportati dalle istituzioni. E non mi si venga a dire che abbiamo pregiudizi verso la tecnologia: se ho abolito il ministero per l’Innovazione e la Trasformazione digitale non è perché le considero marginali, ma perché al contrario le ritengo compito strutturale e trasversale di tutte le funzioni di governo, sotto il coordinamento di Palazzo Chigi, nonché di tutti i cittadini e di tutte le imprese.

Risentiamoci a fine anno, direttore: vorrei stupirla con un piano strategico che dimostri di quali radicali innovazioni è capace un moderno leader conservatore”.

Bene, questo è probabilmente quello che avrebbe risposto un premier che avesse accettato di essere preso per mano da un avatar di IA, e non solo preso in braccio da quel marcantonio di Guido Crosetto. Meglio però che abbia scritto tutto ciò di mio pugno, senza consultare quella specie di pappagallo stocastico di ChatGPT: mi avrebbe semplicemente ripetuto solo una vecchia e melensa canzone, mentre io, da impenitente innovatore, mi tengo testardamente stretta una nuova idea di Giorgia, on my mind.

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