L'editoriale del direttore
Un'Italia divisa dopo il 25 aprile: ma quando mai?
La lettera di Mattarella, le parole di Meloni e un filo che parte da lontano. La festa della Liberazione ci ricorda che sui fondamentali l’Italia è più coesa rispetto a come viene descritta dai talk show. Così si smonta il falso mito del “paese lacerato”
Le celebrazioni del 25 aprile hanno contribuito a rafforzare un’immagine dell’Italia che prima o poi meriterebbe di essere presa sul serio dalla classe dirigente del nostro paese. Un’Italia molto diversa rispetto a quella che vive spesso nei talk-show, un’Italia che nei fatti, di fronte ai fondamentali di un paese, di fronte ai suoi valori non negoziabili, tende più a unirsi che a dividersi. Le cerimonie del 25 aprile hanno dimostrato, come abbiamo scritto ieri, che la presenza di una destra democratica al governo è una delle più importanti vittorie dell’antifascismo italiano e le parole nette pronunciate ieri dalla presidente del Consiglio sul fascismo sono lì a indicare un elemento nuovo e interessante da indagare: la presenza, su alcuni temi, di uno spirito di unità nazionale, a livello politico, che non vive solo quando si chiede alla maggioranza di governo di mostrare al pubblico le proprie analisi del sangue, sul tema dell’antifascismo.
L’Italia che, magicamente e incredibilmente, si ritrova unita quando discute di alcuni valori non negoziabili, è un’Italia all’interno della quale il populismo non è morto, ovvio, ma si è fortemente ridimensionato, anche grazie ad alcune importanti marce indietro compiute dalla destra di governo nei suoi primi sei mesi alla guida dell’Italia (sull’antifascismo, la lettera di Meloni di ieri è chiara e forte, nonostante il tono forse inutilmente polemico di alcuni passaggi, più da leader dell’opposizione che da capo del governo). Il ragionamento, naturalmente, vale quando si parla dei temi che abbiamo appena citato, ma vale in una misura ancora più rotonda se si mettono insieme altri elementi cruciali della nostra vita pubblica. Vale per i temi dell’antifascismo (quando in questi giorni le posizioni di Fratelli d’Italia sono apparse timide, sul tema, ad aver rimproverato il partito di Giorgia Meloni è stata la Lega). Vale per il sostegno dell’Italia alla resistenza ucraina (l’unico partito contrario all’invio delle armi è il M5s, che però quando era al governo ha inviato eccome le armi agli ucraini). Vale per il percorso di emancipazione dell’Italia dalla dipendenza energetica dalla Russia (l’agenda Draghi oggi è patrimonio della destra più di quanto non lo sia della sinistra, citofonare Roberto Cingolani). Vale per l’assenza nel dibattito politico di elementi roboanti di puro anti europeismo (alle elezioni europee di cinque anni fa si parlava di come uscire dall’euro, in Italia, oggi si parla di come rendere l’Europa più forte). Vale tutto sommato anche per tutto ciò che riguarda la piattaforma del Pnrr (la linea del presidente del Consiglio è quella di non sprecare un solo euro del piano, consapevole del fatto che il Pnrr, se lasciato al suo destino, potrebbe passare rapidamente dall’acronimo di Piano nazionale di ripresa e resilienza a quello di Panico nazionale sulla reputazione di una repubblica).
Vale per la presenza nel panorama economico del nostro paese di una nuova consapevolezza legata alla necessità di considerare il protezionismo non come un’arma con cui proteggersi ma come un virus da combattere (al protezionismo di Washington, ha detto la scorsa settimana Meloni al nostro giornale, “si risponde con la concorrenza aperta e leale”, ed è interessante che sia la destra antimercatista a decantare ora le virtù dei trattati di libero scambio). Nonostante i tentativi molteplici da parte della classe dirigente politica di descrivere l’Italia per quello che non è, un paese inaffidabile, indisciplinato, corroso dal fascismo e dal populismo, l’immagine che il nostro paese in questo momento offre di sé è quella di un paese tutto pacificato sui grandi temi. Un paese che, anche se a fatica, ha compreso che l’unico sovranismo di cui ha bisogno l’Italia è quello europeo. Un paese che, anche se a fatica, ha compreso che non è il nazionalismo la leva migliore da azionare per difendere l’interesse nazionale. Un paese che, anche se a fatica, ha compreso che il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia, anche in termini di consenso, non è legato alla rincorsa agli estremismi ma è legato a un’altra competizione, a un’altra gara, a una corsa per mostrare non di essere più populisti degli altri ma di essere più responsabili degli altri.
Non stiamo dicendo che il populismo è morto, magari fosse vero, ma stiamo dicendo che oggi l’essere anti populisti, così come l’essere antifascisti, non è più un collante sufficiente per costituire un’identità politica forte, robusta, capace di proiettarsi verso il futuro. E le celebrazioni del 25 aprile, comprese le parole perfette del capo dello stato di ieri a Cuneo che pubblichiamo qui, ce lo ricordano con forza. Un paese diviso su molto, ma non sui fondamentali. Non male quest’Italia, no?