Non le piace, ma deve accettarlo. Il sentiero stretto di Meloni sul nuovo Patto di stabilità
Rigurgiti di sovranismo in Lega e FdI dopo la presentazione delle nuove regole europee. Il rischio di fare, perveresamente, il gioco della Germania. La cautela di Giorgetti. La sorpresa di Gentiloni. La premier costretta a cercare l'intesa con Macron
A chi gli faceva notare la durezza dei commenti provenienti da Berlino, Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione, mercoledì spiegava che, “proprio perché frutto di un compromesso”, la proposta del nuovo Patto di stabilità appena presentata sarebbe facilmente divenuta oggetto non solo dei frugali, ma anche dei loro antagonisti. “Una dinamica nota”, certo. Ma forse certi commenti italiani devono aver sorpreso non poco anche Paolo Gentiloni, se è vero che le stesse sue inquietudini sono rimbalzate anche tra i corridoi di Palazzo Chigi: “Facciamo il gioco dei nostri rivali?”.
E si spiega così, allora, anche l’insolita continenza con cui i membri del governo hanno accolto l’annuncio del nuovo Patto di stabilità. Perché in effetti, se certi giudizi offerti in privato da ministri e sottosegretari fossero stati messi a verbale, il rischio di darsi la zappa sui piedi sarebbe stato concreto. In effetti quei sospiri trattenuti a stento rassomigliavano alle parole che i soliti intrepidi della Lega hanno invece voluto dichiarare. Per Marco Zanni, europarlamentare del Carroccio e impenitente antieuro, la riforma è un “padulo” (versione alternativa al famoso cetriolo di guzzantian-tremontiana memoria), e anzi “una pistola con cui possiamo suicidarci”; per Claudio Borghi, che di Zanni è padrino politico, è una “fregatura”. E così, per paradossale convergenza degli opposti, si avveravano quelle previsioni che facevano alcuni esponenti della Cdu, lunedì scorso, in un convegno tenutosi a Berlino dedicato al nuovo Patto di stabilità, osservando come anche negli stati ipoteticamente più avvantaggiati da una simile riforma delle regole di bilancio la necessità di dover costantemente concordare con la Commissione europea le politiche di riforma e di investimento, oltreché di spesa, avrebbe forse dato l’idea di una “troika onnipresente”, e dunque generato crisi di rigetto. Curiosamente, proprio quello che ora in ambiente sovranista italico si comincia a dire.
Ma sottovoce, appunto. Perché Giorgia Meloni, e con lei i suoi consiglieri, sanno bene che il sentiero per criticare il nuovo Patto è proverbialmente stretto, per l’Italia. Anche perché l’unico vero alleato in questa trattativa che si preannuncia lunga e tribolata è quel governo francese che s’è espresso, è vero, con un certo scetticismo su alcuni aspetti della revisione del Patto, ma che non potrà assecondare, nel confronto con la Germania, eventuali rigurgiti di complottismo antieuropeista dei patrioti nostrani. Bruno Le Maire, che nelle sue previsioni ha stimato un ritorno sotto il limite del 3 per cento di deficit solo nel 2027, ha espresso una critica puntuale e circoscritta, quella contro l’automatismo del taglio alla spesa dello 0,5 per cento per i paesi troppo indebitati: “Rischia di essere pro ciclica, e nella sua uniformità contraddice lo spirito della riforma” che invece prevede piani di rientro dal debito tagliati sulle esigenze dei singoli stati. Forse per questo il suo omologo Giancarlo Giorgetti ha scelto anche lui un tasto, e uno solo, da battere: quello dell’esclusione dal computo del deficit delle spese per il Pnrr. Nella convinzione, evidentemente, che solo unendo le forze di Roma e Parigi si potrà sabotare l’assalto tedesco. Ed è per questo che Meloni s’è finalmente decisa a fissare in agenda il suo viaggio all’Eliseo (che al Quirinale aspettavano da mesi) per metà giugno, consapevole com’è che, almeno sui temi finanziari, quella con Emmanuel Macron dovrà essere un’intesa obbligata. E forse anche per questo nel suo gabinetto ieri pomeriggio c’era chi faceva di calcolo: “Con Francia, Italia e Spagna compatte, per la Germania è praticamente impossibile creare una minoranza di blocco in Consiglio”.
E del resto, scegliere la strada della critica radicale al nuovo Patto, denunciare gli eccessi di rigorismo da parte dei nordici, esporrebbe Meloni a una critica fin troppo scontata, che non a caso s’intravede in controluce dietro le parole di Alessandro Cattaneo. “Perché sono proprio i conservatori e i liberali a destra del Ppe, e cioè gli alleati prediletti della premier, che si fanno promotori di un ritorno all’austerity, per cui confidiamo che Meloni saprà parlarci e convincerli a più miti consigli”, dice il deputato di FI.
Insomma, può non essere il migliore degli accordi possibili, ma quello uscito dagli uffici della Commissione è forse un’ottima base di negoziazione, per Meloni. Specie nella misura in cui, ed è questa l’osservazione fatta da Gentiloni, il Patto segna una rinnovata centralità della politica. Per questo il commissario agli Affari economici s’è sbilanciato suggerendo di “non soffermarsi troppo sul parametro in sé dello 0,5 per cento”, e ha sottolineato quello che è in effetti il vero ribaltamento del paradigma nei rapporti tra stati membri e Bruxelles: “Non più regole e controlli uguali per tutti indistintamente, ma dei piani elaborati da ciascun governo d’intesa con la Commissione per definire la politica economica, di spesa e di investimenti, di quattro anni in quattro anni”. Non a caso, è anche l’analisi condivisa da analisti internazionali, dal Financial Times in giù, che hanno descritto una Germania costretta alla resa, o quasi. Davvero, per amore di polemica contro “gli eccessi del vincolo esterno”, per velleità sovraniste, per un rincrudire di istinti antieuropeisti, vale la pena rimettere tutto in discussione, facendo un favore proprio ai tedeschi?