La parabola
Il pasticcio della leadership del Terzo polo e l'esempio tradito della Dc
La surreale vicenda di Italia viva e Azione suggerisce illumina la criticità dei partiti di oggi rispetto al tema della leadership e della vita democratica all'interno dei partiti. Un problema che non riguarda solo Calenda e Renzi e arriva da lontano
La surreale vicenda di Azione e Italia viva testimonia ancora una volta la fragilità del sistema politico italiano da 30 anni a questa parte. L’amicizia che ci lega a ciascuno dei due protagonisti e a tanti loro parlamentari non ci impedisce di dare un giudizio politicamente severo di un’avventura il cui esito era peraltro largamente prevedibile. Forse è il tempo di porre a tutti, a cominciare da Calenda e da Renzi, alcune semplici domande. E’ così difficile immaginare la costruzione di un partito collegiale nel quale le leadership siano multiple e contendibili? Che leadership sono quelle che si trasformano in personalismi statutari bandendo ogni pratica democratica nella propria vita interna? E che partito mai è quello in cui c’è un solo leader in un sistema elettorale in cui i parlamentari non vengono votati perché le liste sono bloccate e la gestione personalistica del vertice organizza la composizione delle liste secondo il criterio della fedeltà, aprendo così le porte a una selezione cortigiana della classe dirigente piuttosto che favorirne una di stampo darwiniano? E che partito mai è quello in cui una cultura di riferimento è talmente sbiadita nel nome e nei fatti da lasciare spazio solo alla gestione personale?
Ciò che è accaduto nel Terzo polo altro non è che il modellino che impera in tutti i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica senza che nessuno si offenda. Abbiamo vissuto in un sistema in cui i grandi partiti avevano almeno 7/8 grandi leader che nei partiti di governo consentivano guide diverse a seconda delle stagioni politiche e delle grandi questioni che il paese doveva affrontare. E la stessa cosa avveniva nei partiti di opposizione in cui leader diversi intercettavano consensi diversi, al punto da diventare grandi partiti popolari il cui lievito era una vita democratica anche in quelle formazioni alla cui base c’era una ispirazione autoritaria. Ci riferiamo al vecchio Partito comunista, dove in genere il segretario nazionale era a vita ma in cui la gestione del partito era collegiale e vedeva coinvolti tutti i leader.
Oggi Elly Schlein organizza la segreteria del Partito democratico, presunto erede del Pci e della Dc, lasciando alla minoranza spazi angusti e irrilevanti. Nei primi 40 anni della Repubblica, anche nei piccoli partiti, i leader erano più di uno e spesso si alternavano alla guida del partito a testimonianza di un sistema democratico che non conosceva le degenerazioni del personalismo di oggi, dove il declino dell’unico leader si accompagna alla consunzione dell’intero partito ( Forza Italia docet). Domande così semplici che evocano risposte altrettanto semplici sfuggono non solo a Calenda e a Renzi, ma a quasi tutti i partiti avendo tutti smarrito la consapevolezza che il leader vero è quello che convince, non quello che ordina e comanda. Da questo punto di vista la storia della Dc era emblematica. Nei momenti più difficili, vedi il 1976, anno della solidarietà nazionale, il partito si rivolse ai due leader che erano alla guida delle due più piccole correnti, Moro e Andreotti, a testimonianza del pensiero democratico di cui parlavamo. Ecco perché i democristiani che si consegnarono al Pds fecero un atto di viltà nei riguardi del paese, come spiegò l’ambasciatore americano Reginald Bartholomew al proprio segretario di stato Warren Christoper in un rapporto confidenziale dopo aver incontrato una delegazione della Dc in cui erano presenti Pierluigi Castagnetti, Mino Martinazzoli, Rosa Russo Iervolino, Gabriele De Rosa e un altro deputato della sinistra Dc di cui non siamo certi del nome.
Come racconta nel suo bel libro “The end” lo storico Andrea Spiri, Barrtolomew dice: “Sono rimasto colpito dal disincanto democristiano in merito alle prospettive del partito”. Una parte della sinistra Dc si era già consegnata e guarda caso nessuno di quell’area ebbe mai un avviso di garanzia pur avendo, come tutti, contributi elettorali non dichiarati. Così iniziò il disastro del paese di cui Renzi e Calenda sono gli ultimi protagonisti.