La strategia dell'attenzione di Biden per Meloni. Il senso della scelta del nuovo ambasciatore
Quella di Jack Markell è una nomina prettamente politica: segno che la Casa Bianca ci tiene alle relazioni con Roma, ma vigila sulle scelte internazionali del governo sovranista. La premier prepara il viaggio a Washington per il 20 giugno. I consigli di Fini su Trump
A sentire chi dice di conoscerlo, pare che il suo unico rapporto stabile col Bel paese, se si escludono vacanze fatte anni addietro, fosse quello fornitogli da “Italian touch”, la catena di ristoranti molto attiva lì nella costa est del suo Delaware, tra Dover e Rehoboth Beach. Un po’ sovranismo alimentare d’esportazione, un po’ deleterio Italian sounding. E però, se Joe Biden ha voluto proprio lui, Jack Markell, come nuovo ambasciatore a Roma, è per quella che un po’ tutti, tra Via Veneto e dintorni, definiscono un “segnale di attenzione”. Che ha due valenze, a ben vedere. Nel senso che c’è un rinnovato riconoscimento dell’importanza dei rapporti tra l’Italia e gli Usa; e c’è però, al tempo stesso, anche un dispaccio inequivocabilmente politico che la Casa Bianca manda a Palazzo Chigi: vigiliamo, vigileremo.
E si capisce, certo, che dalle parti di Giorgia Meloni preferiscano soffermarsi più sul primo aspetto. Sul fatto, cioè, che anche a seguito di pressioni venute dalla nostra diplomazia, finalmente Washington abbia voluto superare quella bizzarra anomalia che risiedeva nella ormai lunghissima vacatio a Via Veneto che durava dal gennaio del 2011: da quando, cioè, il mandato di Lewis Eisenberg come ambasciatore era terminato, e il suo posto, da lì in avanti, è stato occupato solo da “incaricati d’affari”, che è ovviamente qualcosa meno. Che poi sia stata davvero l’assertività della moral suasion patriottica, a convincere Biden, chissà. Forse, più di quella, nello scandire i tempi di questa lunga transizione ha influito la protratta indecisione di Nancy Pelosi, la ex speaker democratica della Camera che era l’indiziata principale a trasferirsi a Via Veneto, a inizio 2023, e che invece, dopo l’esito in parte inaspettato del mid-term ci ha ripensato. Non solo. Perché a quel punto per Biden si è poi reso necessario, tra l’altro, trovare un posto di ripiego per quel Patrick Maloney, esperto deputato dem vicino alla stessa Pelosi, che nel risiko di novembre aveva perso il suo seggio a Capitol Hill, e che ora verrà inviato come ambasciatore all’Ocse, a Parigi, proprio al posto di Markell.
Un complicato gioco degli incastri, dunque. E semmai a maggior ragione, e qui si arriva all’altro risvolto di questa faccenda, proprio l’aver voluto procedere ora alla nomina dimostra l’attenzione di Biden per le cose di casa nostra. Perché, dovendo attendere la necessaria ratifica da parte del Senato americano, il trasloco effettivo di Markell a Roma potrebbe richiedere anche cinque o sei mesi, e avvenire dunque a meno di un anno dalla sua potenziale scadenza, cioè delle elezioni americane del novembre prossimo. E dunque anche in questa improvvisa fretta starebbe il senso della scelta.
Corroborato, del resto, dal profilo individuato. Ex governatore del Delaware, lo stato di Biden, per due mandati, tra il 2009 e il 2017, dopo esserne stato a lungo il responsabile delle finanze, il sessantaduenne Markell, di origine ebraica, che ha iniziato a fare politica nel movimento giovanile del “Sionismo socialista”, è amico personale del presidente americano. Una relazione così forte, quella tra i due, che Markell è stato, per un periodo, anche il padrino politico del figlio di Biden, Beau, fino a prenderlo con sé come attorney general nel Delaware prima della sua prematura scomparsa, nel 2015. Membro del Partito democratico, Markell ha seguito una politica di stampo obamiano: interventi a favore del welfare e grande attenzione sul piano dei diritti civili, compresa la legalizzazione dei matrimoni gay nello stato della costa est. Uno di famiglia, a casa Biden. E non è banale, allora, che alla Casa Bianca abbiano scelto proprio lui, richiamandolo da Parigi. Se dunque un segno, in questa scelta, si deve cercare, sta proprio nell’importanza che Biden, nel tribolato contesto internazionale, attribuisce alla relazione con l’Italia.
Per Meloni, che a sua volta tra dodici mesi si gioca molto del suo futuro con le elezioni europee, l’asse atlantico resta decisivo, anche per garantirsi la dignità di leader a cui aspira sui tavoli di Bruxelles e nelle sfide mediterranee. E si capisce, così, lo zelo con cui si va preparando un’agenda che potrebbe vedere molto traffico, nelle prossime settimane, lungo la rotta tra Roma e Washington. Inizierà Antonio Tajani. Il 2 giugno, poi, dovrebbe essere Adolfo Urso a recarsi negli Usa per inaugurare il volo diretto di Ita tra le due capitali. Quindi, stando al calendario ancora provvisorio, sarà Meloni stessa a volare alla Casa Bianca, probabilmente il 20 giugno, una decina di giorni prima del viaggio che anche Guido Crosetto ha in programma. Il tutto, dopo che oggi pomeriggio la premier incontrerà a Palzzo Chigi Kevin McCarthy, lo speaker repubblicano della Camera, impegnato in un tour internazionale con una folta delegazione di deputati americani. E tuttavia, proprio l’ansia di rafforzare il credito presso l’Amministrazione Biden impone alla premier, e gliele imporrà sempre più, scelte precise. La presa di distanza se non dalla sua affezione al mondo repubblicano, di certo a quella galassia di cospirazionismo populista da cui s’era fatta attrarre, fino al punto di farsi benedire da Steve Bannon nel 2018. Ora, ovviamente, il trumpismo appare molto più tossico di allora. Forse anche per questo pare che Gianfranco Fini abbia già da tempo dispensato il suo suggerimento a Meloni in vista delle elezioni americane: non schierarsi, e assolutamente nessun endorsement a Trump.