Italia terra di profeti disarmati e di dibattiti senza fine
Dall’armocromista all’economia circolare, dalla precarietà ai piazzisti di morte, dalla rete unica alla carne sintetica. Indagine sui fatti dietro le chiacchiere, armi di distrazione di massa
Nella settimana tra il 25 aprile e il Primo maggio, appena sopita la diatriba fascismo-antifascismo fino alla prossima puntata, e non ancora accesa quella sul lavoro (festa o fatica, posto fisso o precariato, articolo 4 della Costituzione o Jobs act), ci siamo accapigliati sul dilemma che ha lacerato secoli di etica e critica del gusto: l’abito fa il monaco o il monaco fa l’abito? E’ vero, non siamo più alle tribune politiche di Jader Jacobelli spesso rimpiante nel corso del tempo. Va bene, la battaglia delle idee non si svolge sulle colonne di Rinascita, Nuovi Argomenti, Mondo Operaio o Critica sociale, ma fa scuola Vogue. Lo sappiamo che il ritmo dell’analisi è ormai dettato da un tweet. Inutile riproporre la fiera dell’ovvio, eppure poche volte il futuro del paese (pardon della Nazione) è stato appeso all’eterno ritorno dell’eguale, al ripetersi di cicli prefissati, in tempi sempre più stretti che ruotano attorno a veri e propri tormentoni. Dalla politica all’economia, dalla scienza all’informazione, dai maestri dell’impossibile alle icone pop, per non parlare di un cinema che si tuffa nel remake, è tutto un noioso “ron ron”. Sentiamo già le accuse, ma pur tacciati di tedioso snobismo, teniamo il punto. La prova dei fatti ci dà ragione.
L’armocromista, lo abbiamo imparato, è uno di quei mestieri che, alla faccia di chi predica la fine e/o il rifiuto del lavoro, fioriscono ogni giorno grazie alla irrefrenabile creatività umana. “Nata ai piedi di un vulcano e cresciuta all’ombra della Madonnina, conservo vizi e virtù di Napoli e Milano”, dice di sé Rossella Migliaccio che ha reso famosa una disciplina un tempo arcana e dispersa. Da lei si sono recate le più blasonate aziende di “fashion, beauty e italian style”, ma anche la Mondadori. Elly Schlein, sappiamo ormai anche questo, si è rivolta a Enrica Chicchio da Bologna (tutto in casa) che guadagna 300 euro all’ora (è la tariffa del mestiere). E giù improperi contro la sinistra di cachemire (al caviale per i francesi) e i radical chic. Anche i tailleur di Giorgia Meloni e il suo abito Armani alla prima della Scala erano finiti nel mirino, ma la destra, per quanto narodnika o “borgatara”, è autorizzata, la sinistra no, almeno da quando i gruppettari hanno santificato l’eskimo e le Clark, demonizzando il loden e le Church. Chi ha i capelli bianchi ricorda quando la stampa di destra si scagliava contro i bolscevichi in doppio petto. Palmiro Togliatti se ne inorgogliva: era lui a dettare il dress code del perfetto comunista indistinguibile nelle forme dal perfetto borghese. E il bracciante Giuseppe Di Vittorio non dimenticava mai la cravatta. Erano gli operai a istruire i figli affinché vestissero in modo appropriato per non farsi schernire dai rampolli del capitale. Lo ha ricordato Fausto Bertinotti che se ne intende. E dobbiamo a lui anche una formidabile definizione buona per un altro luogo comune dei nostri tempi: “L’ecologia senza giustizia sociale è solo giardinaggio”, dice, altro che “noi stiamo con l’orso”. Sì, perché il circo mediatico-politico è riuscito a portare in piazza centinaia di “giardinieri” i quali, dimenticati i funerali di un povero ragazzo sbranato solo perché correva lungo un sentiero, si battono strenuamente per salvare Jj4, spingendo anche il Tar locale a sospendere il decreto di abbattimento. La magistratura è indipendente, ma non sorda alle sirene del popolo.
Il plantigrado sacralizzato, il pauperismo livellatore, la farina di grilli, sono questi i confini tra destra e sinistra? Aveva ragione già trent’anni fa Giorgio Gaber a lungo considerato un qualunquista? Un momento, non perdiamoci in cavilli scolastici, ragioniamo in modo trasversale come invita a fare Luciano Violante: destra e sinistra oggi non sono blocchi compatti ideologicamente e socialmente, forse non lo sono mai stati se non nelle semplificazioni dottrinarie, si pensi alla falsa idea che la classe operaia abbia sempre votato a sinistra. Non è vero in nessun paese industriale avanzato, tanto meno in Italia: i flussi elettorali studiati dall’Istituto Cattaneo e dalla Fondazione Di Vittorio mostrano che nel dopoguerra i socialcomunisti hanno preso la maggioranza tra gli operai solo a metà degli anni 70. In ogni caso, oggi più che mai, sottolinea Violante, destra e sinistra sono degli arcipelaghi. Lo è, del resto, l’intera società democratica e pluralista. Un pensatore poco conosciuto in Italia, ma considerato uno dei maggiori filosofi della politica viventi, Chandran Kukathas nato in Malesia, cresciuto in Australia, docente alla London School of Economics, ha scritto un libro nel 2003 intitolato “Arcipelago liberale” (pubblicato e tradotto in italiano dalla piccola casa editrice maceratese Liberilibri fondata da Aldo Canovari, recentemente scomparso). Può essere definito il nuovo breviario del pluralismo e della tolleranza che è sempre “tolleranza della differenza”. La diversità crea problemi, anzi conflitti, tuttavia “la soluzione non è una teoria su come i molti possono essere ridotti a uno, ma su come i molti possono coesistere”.
La sua lezione è estremamente utile nel passare in rassegna i tormentoni della politica quotidiana da quelli futili ad altri ben più robusti. Prendiamo il tam tam contro il precariato: i tamburi suonano minacciosi dopo il decretone lavoro del governo Meloni. Elly Schlein che non si dedica solo agli spolverini verde pastello, predica contro la precarizzazione per le norme che consentono di prolungare il lavoro a tempo determinato, sia pur contrattando. Ma la vulgata gauchiste ha conquistato anche il Pd e accusa il Jobs act, mettendo alla gogna Matteo Renzi. In realtà le cose sono ben diverse. E qui non possiamo sfuggire ai ricordi né alle aride cifre. L’articolo 18 della legge 300 sul lavoro era già il bersaglio di Silvio Berlusconi, ma il Cavaliere nel 2002 si era fatto spaventare da Sergio Cofferati, il leader della Cgil che aveva portato a Roma al Circo Massimo tre milioni di lavoratori. Le norme sui licenziamenti erano state alleggerite nel 2012 dal governo Monti, poi nel marzo 2015 viene introdotto un nuovo regime sanzionatorio (pagamento di un’indennità e limiti al reintegro), applicando il paradosso italiano secondo il quale tocca alla sinistra fare le riforme che altrove avrebbe fatto la destra. Gli effetti si vedono un anno dopo, ma non c’è nessuna ondata di espulsioni massicce dalle fabbriche. Nel biennio successivo, al contrario, viene creato un milione 270 mila posti di lavoro oltre la metà con contratti a tempo indeterminato. Il trend è ripreso dopo la pandemia. Nel 2021 e il 2022 un altro milione e più di donne e uomini ha trovato un impiego. Da Renzi a Draghi siamo a due milioni e 300 mila, in maggioranza stabili. Il dato è particolarmente evidente nello scorso anno: gli occupati alle dipendenze sono aumentati di 459 mila unità, ben 464 mila con un impiego permanente, i contratti a termine si sono ridotti di 47 mila. La spinta non si è esaurita come mostrano i dati sul primo trimestre forniti dall’Istat. Il governo giubila. Gli incentivi alle assunzioni, contentini per placare eroici furori populisti, sono stati riproposti dal governo Meloni che li considera una sorta di via nazional-popolare all’occupazione di “chi è in grado di lavorare”. Gli aiuti, però, non sono davvero determinanti. I contratti a tutele crescenti introdotti per mitigare il Jobs act sono costati 18 miliardi per assunzioni che si sarebbero comunque fatte e l’anatema contro il tempo determinato ha poco senso. La crescita è la causa principale del boom degli occupati. E i numeri ci dicono che non predomina la precarietà del lavoro. Le assunzioni a termine sono riprese dopo la pandemia e arrivano a tre milioni e mezzo – su 23 milioni di occupati – restando comunque inferiori a quelle del 2016. Sono diminuiti sia al nord sia al sud i giovani che non lavorano e non studiano, sebbene siano sempre troppi (19 per cento nel 2022, meno 4,1 per cento sull’anno precedente). Si può fare di più e meglio, ma la coppia Landini-Schlein sbaglia parola d’ordine.
L’arcipelago del lavoro va organizzato, protetto e soprattutto creato. Ben vengano insomma l’armocromista e il ceramista, lo smanettone e il pizzettaro. Tutto okay? Certo che no, madama la marchesa, ma è tornato il posto fisso, che non vuol dire rigido e immobile. Il modo di lavorare cambia, le aziende si spostano anche quando non licenziano, le tecnologie introducono sistemi prima sconosciuti (si pensi solo all’intelligenza artificiale). Ciò riguarda pure le retribuzioni. Il problema principale in Italia non è introdurre il salario minimo, ma aumentare il salario medio che resta troppo basso, legandolo più strettamente alle mansioni e alla produttività. Il governo si è sostituito alle imprese perché i benefici più consistenti sono venuti finora dalla nazionalizzazione di una parte dei contributi sociali (messi a carico del fisco non più di lavoratori e imprenditori) e dal trasferimento delle imposte sulla fiscalità generale. Tra Renzi, Conte, Draghi e Meloni, mettendo insieme Irpef, Irap, i cento euro in busta paga e il cuneo fiscale, s’arriva a circa trenta miliardi l’anno ai quali se ne aggiungeranno altri dieci per il 2024, come s’è impegnata a fare Giorgia Meloni la quale ripete di voler sostenere le imprese che creano ricchezza. In realtà continua a prevalere l’assistenzialismo corporativo. E’ vero anche per un altro rovello che ci tormenta da quasi vent’anni: la rete unica delle telecomunicazioni.
Per ora di unico non c’è niente e forse non ci sarà, tutto è da tempo sul tavolo dei politici non dei tecnici. Il governo Draghi ha traccheggiato non riuscendo a scegliere tra Vittorio Colao sostenitore del pluralismo e l’unificatore Giancarlo Giorgetti che avrebbe campo libero, anche lui però teme di infilarsi in un labirinto senza nemmeno il filo di Arianna. Appena insediato, il governo è partito lancia in resta. Semaforo verde alla Cassa depositi e prestiti per comprare insieme al fondo australiano Macquarie la società chiamata Netco nella quale Tim concentra la rete (compresi i cavi sottomarini di Sparkle), mettendo sul tavolo 18 miliardi, due in meno rispetto a quelli offerti dal fondo americano Kkr, ma le condizioni sarebbero considerate migliorative: circa 2-2,5 miliardi in liquidità e senza la richiesta di riassorbire gli esuberi della nuova compagnia nella quale confluirebbero i servizi di Tim. La Cdp è anche azionista insieme a Macquarie di Open Fiber la società concorrente, nata per cablare il paese, cioè le aree dove è meno conveniente per un privato posare i cavi a fibra ottica. Il secondo passo sarebbe fondere il tutto creando la famosa rete unica di stato che, secondo Matteo Salvini, è una questione di sicurezza nazionale. La Telecom possiede una rete fissa in rame più lenta, ma affidabile, i router che sono essenziali in casa e in ufficio, una rete in fibra ottica, una rete internazionale che ha anche un valore strategico, una rete mobile (in 4g e 5g), e via di questo passo. Liberarsi delle infrastrutture trasformerebbe la società in un guscio vuoto, per questo cerca di resistere. Nessuna delle due offerte soddisfa pienamente gli amministratori e gli azionisti, a cominciare da Vivendi che è sul piede di guerra. La società francese controllata da Vincent Bolloré possiede il 23,75 per cento; entrata nel 2014, da allora ha perso tre miliardi di euro. Arnaud de Puyfontaine, il plenipotenziario fino a prova contraria del finanziere bretone, è uscito dal consiglio di amministrazione per tenersi le mani libere. Che cosa vuol fare? Intanto alza il prezzo, punta a incamerare ben 30 miliardi di euro dalla eventuale cessione della rete, abbattendo così il debito di Tim, una valutazione ritenuta eccessiva dalla maggior parte degli analisti, basti pensare che in borsa l’intero gruppo vale appena 5 miliardi di euro. La seconda opzione è un ribaltone: far decadere l’amministratore delegato Pietro Labriola, sostituire il presidente Salvatore Rossi e avere mano libera. L’assemblea il 17 aprile ha bocciato il pacchetto retributivo proposto per l’ad, un chiaro segnale di sfiducia. Intanto i francesi hanno preso come consulente Daniele Ruvinetti già a Telecom vent’anni fa, analista geopolitico specializzato sulla Libia, vicino al gruppo Leonardo, in buone relazioni sia con l’area Salvini sia con l’area Meloni. Il rapporto con i governi italiani è sempre stato il tallone d’Achille di Vivendi, quanto a Bolloré la rottura con Berlusconi in seguito alla scalata a Mediaset lo ha tagliato fuori dall’arena politica. “Questo è un nodo avviluppato, questo è un gruppo rintrecciato” avrebbe detto Gioacchino Rossini. E intanto si fa strada la domanda di fondo: la rete dev’essere per forza unica e di stato? Un arcipelago ben controllato dove si possa navigare in sicurezza, senza pirati né corsari, non è meglio dell’isola che non c’è?
Il paradigma dell’arcipelago vale anche per l’innovazione tecnologica. La “neutralità” è il principio usato per tenere in vita più o meno artificialmente il motore a scoppio alimentato con carburanti “biologici”. Niente reductio ad unum, si usa la tecnologia che più conviene calcolando l’efficienza, i costi, i benefici e il consenso perché si tratta di tener buoni sindacati, imprenditori, lobby, poteri forti e deboli. Intanto, mentre ci si batte e sbatte per difendere i fumi dello scappamento, l’industria italiana si riorganizza, e nascono multinazionali piccole, ma non più tascabili che forniscono componenti essenziali per le vetture a batteria. In Emilia la Motor Valley sta diventando una E-Valley con oltre sessanta imprese già orientate verso un futuro di cui, secondo Vincenzo Gesmundo segretario della Coldiretti, “non sappiamo niente” (e quando mai a meno di non ricorrere ai veggenti?). Lo dice a proposito della carne chiamata sintetica, artificiale, “creata dalle macchine”, mettendo alla berlina Singapore, Israele, gli Stati Uniti. E’ nociva per la salute? Forse, ma più o meno della mucca pazza? E ancora. Si sostiene che con l’elettrificazione saremo nelle mani della Cina, la quale, in realtà, dipende per il litio dall’Australia. In Italia ci sono terre rare soprattutto in Piemonte, Sardegna e Lazio. L’intera Europa non ne è sguarnita, se non si vuole passare da una dipendenza all’altra bisogna utilizzare anche le risorse interne, ciò vuol dire scavare, aprire (o riaprire) miniere. La Germania lo sta facendo, in Italia si prepara un altro psicodramma come quello che nel 2016 scoppiò sul ritorno delle trivelle in Adriatico, una campagna referendaria fallimentare, ma comunque disastrosa perché ha bloccato quel poco che si poteva fare. La crisi del gas dopo l’invasione dell’Ucraina ha placato eroici furori, non ha vinto le resistenze dei Nimby. Sul termovalorizzatore di Roma si svolge la stessa pantomima. Intanto il sindaco Gualtieri ha firmato un accordo con l’Olanda che guadagna fior di quattrini lavorando la monnezza capitolina. Quella siciliana, a sua volta, va in Danimarca. Alla faccia della difesa dell’ambiente e delle tasche dei contribuenti: quanto costa e quanto inquina percorrere migliaia di chilometri? Molto più che riutilizzare gli scarti e produrre energia a chilometro zero, secondo il precetto circolare.
Ecco l’altro mantra dei “giardinieri” bertinottiani. L’economia circolare, si dice, deve soppiantare l’economia lineare. L’ha ripetuto anche la leader del Pd, ma non è certo la sola. Che cosa vuol dire? Lo scambio non è di per sé circolare? E non lo è produrre merci a mezzo di merci? Dallo stracitato e poco letto Karl Marx (secondo libro del Capitale, per gli affezionati) al teorico delle tavole di interdipendenza strutturali, il premio Nobel Wassily Leontief (russo americanizzato), passando per l’esercizio astratto di Piero Sraffa, è evidente che i frutti del lavoro s’intersecano, il problema è capire come. Il sudore cola dalla fronte e circola in ogni ganglio della società. Ma noi stiamo ragionando con vecchie categorie, siamo disperatamente realisti alla Maurizio Ferraris e succubi del senso comune alla George Moore. Perché la circolarità di cui si parla cela in realtà l’utopia della “decrescita felice”. Così, va “ben oltre” il risparmio di risorse attraverso il riciclo dei materiali e il riutilizzo dei prodotti, frontiera nella quale si sono lanciati anche i big della moda, sapendo che nel nostro universo fisico il risultato non è mai a somma zero, qualcosa si perde sempre, quanto dipende dai processi, dalle tecnologie, dalle proprietà della materia. Circoliamo, circoliamo pure, non intasiamo la mente, attenti però alla legge delle rotatorie: in quelle europee ha la precedenza chi sta al centro.
E’ una norma da tenere in mente anche a proposito di un’altra tiritera che si trascina da tempo: il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) ex fondo salva stati, ora salva banche. E’ ormai un’ossessione, ma per dieci anni nessuno è sfuggito al fantasma che oggi angoscia il governo della Nazione Sovrana e rimpiazza nel circo mediatico-politico l’orco dello spread. L’uno e l’altro sono manovrati da forze oscure, quelle che regnano nell’universo esoterico dell’alta finanza, della plutocrazia che parla inglese, francese, tedesco o, peggio ancora, yiddish. La semplice verità è che tutti gli sforzi dell’Italia per mettersi al centro dell’Unione europea, insieme a Germania e Francia, non sono riusciti. Sembrava possibile con Mario Draghi; è stato un fuoco fatuo. Ci riprova Giorgia Meloni, ma parte dalla periferia, quella politica, del nazional-populismo, da ideologie che restano minoritarie nonostante l’onda crescente del risentimento sociale. Spostarsi dalla destra estrema post fascista al centro democristiano è una strada lunga e accidentata, ancor più se resta attaccata al passato. Rishi Sunak è (forse) meglio di Boris Johnson, tuttavia nessun Tory può stare al centro dell’Europa e nemmeno i nazionalisti polacchi, i Veri finlandesi, il Partito della Libertà olandese, per non parlare di Viktor Orbàn. Il Grande Centro è tedesco e democristiano. Giorgia se ne rende conto e corteggia Manfred Weber, il leader del Partito popolare europeo, ma nello stesso tempo cerca di aumentare la sua forza contrattuale titillando le frange. Potrebbe rivelarsi un errore. Decisivo in ogni caso è tenere ferma la posizione sulla guerra contro l’Ucraina. Ma quanto resisterà Meloni, pressata da Matteo Salvini e dai putinisti berlusconiani, dai giri di valzer di Giuseppe Conte, o persino dalle malie della pacificazione alimentate con fantasiosi racconti?
Prendiamo le armi fornite dall’Italia, prendiamo “i piazzisti di morte” (copyright Carlo Rovelli), il nuovo complesso militar-industriale che alimenta una guerra dove non ci sarebbero invasi ed invasori, ma solo attori alla pari, in un simmetrico dramma. Se vogliamo dirla tutta, l’Italia non ha poi dato granché del proprio arsenale che, a sua volta, non è davvero granché. Il paese (pardon la Nazione) ha una certa reputazione in campo navale con Fincantieri e aerospaziale con Leonardo. E’ debole se non insignificante nella difesa di terra. I giornali hanno pubblicato notizie su materiale bellico vecchio, scadente, che gli ucraini non riescono a far funzionare. Fake news? Tutt’altro. Il generale Pietro Serino, capo di stato maggiore dell’esercito, in una intervista al Corriere della Sera ammette che “sono stati anche donati mezzi dismessi dalle forze armate italiane da molti anni e mai offerti proprio per il loro stato di manutenzione e vetustà”. Un altro imbroglio “all’italiana”? No, “sono stati richiesti, comunque, da parte ucraina”, precisa il generale, anche se “sull’esito della rimessa in efficienza, non sono stati dati aggiornamenti trattandosi solo di mezzi classificati come di non conveniente riparazione”. Scarti, insomma, abbiamo dato gli scarti, perché non abbiamo molto da offrire. Un tempo si diceva che le forze armate italiane erano concepite e dislocate soprattutto a nord est, per resistere all’attacco sovietico quei minuti necessari alla controffensiva della Nato. Chi ha fatto il militare lo ricorda bene. Le cose sono un po’ cambiate, non ci sono più i coscritti di una volta, ma professionisti della difesa. Al fondo, però, la dottrina di sicurezza nazionale resta la stessa, a difenderci debbono essere gli altri. L’Italia è un paese di profeti disarmati, ha vinto fra’ Savonarola, ha perso Niccolò Machiavelli.