L'editoriale del direttore
Chi vuole fare la festa all'Ue. I tanti meriti (e le poche mancanze) di Bruxelles
Il compleanno dell’Europa offre ottime ragioni per guardarsi indietro ed essere ottimisti. Ma oltre l’Ucraina c’è di più. Ecco i passi che mancano per scardinare un nuovo ordine mondiale guidato dai nemici dell’occidente
Ci sono ottime ragioni per celebrare oggi la festa dell’Europa, la festa della liberazione dai nazisti, con un tratto di orgoglio, con uno spirito ottimista e con uno sguardo di ammirazione per tutto ciò oggi rappresenta l’Unione europea, anche agli occhi di chi sull’Europa ha sputato per anni. Ci sono ottime ragioni per celebrare oggi questa festa partendo dalle parole potenti con cui l’ha voluta esaltare ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, convinto che “tutto il male che la Russia moderna porta con sé sarà sconfitto nello stesso modo in cui fu sconfitto il nazismo” (ieri Zelensky ha anche annunciato di aver firmato un decreto per far celebrare la festa dell’Europa anche all’Ucraina, ogni 9 maggio, allontanandosi ulteriormente dalla Russia, che il 9 maggio festeggia la vittoria dell’Urss contro i nazisti). E ci sono ottime ragioni per ricordare che, rispetto al 9 maggio di un anno fa, quando l’aggressione all’Ucraina era ancora fresca e l’Europa offriva spesso l’occasione di mostrare più i suoi tratti di debolezza che i suoi tratti di forza, l’Europa, rispetto alla minaccia russa, ha fatto tutto quello che c’era da fare per non farsi trovare impreparata, per difendere la libertà e per mostrarsi pronta a muoversi più con il passo da gigante che con lo scatto da topolino.
Lo ha fatto, l’Europa, facendo tutto ciò che doveva fare. Lo ha fatto approvando svariati pacchetti sulle sanzioni, lo ha fatto sostenendo la resistenza militare ucraina, lo ha fatto provvedendo ad accelerare il percorso di indipendenza energetica dalla Russia, lo ha fatto contribuendo a rendere il peso dell’inflazione meno drammatico del previsto, lo ha fatto offrendo misure utili a sostenere la crescita economica e lo ha fatto dando al mondo una lezione di pragmatismo vera. Una lezione semplice: quando in ballo c’è la libertà, quando in ballo c’è il futuro dei nostri figli, qualche sacrificio è possibile sopportarlo, compreso quello di mostrare unità anche laddove esistono divisioni (citofonare Orbán). Festeggiare il 9 maggio con uno sguardo ottimista è dunque possibile. E non è un approccio da ultrà miopi dell’europeismo né segnalare che l’Europa di oggi ha più strumenti del passato per mostrare i muscoli, per contare nel mondo, per proteggere i propri cittadini (dai fondi comuni ai vaccini passando per la lotta contro le aggressioni della Russia) né ricordare che nell’Europa di oggi anche i nemici interni di un tempo si sono indeboliti (gli anti europeisti articolano oggi le loro critiche concentrandosi sulla necessità di avere non un’Europa meno presente nelle nostre vite ma un’Europa più forte, meno egoista, più solidale).
Eppure il nostro incrollabile e irresponsabile ottimismo – l’ottimismo di chi si è convinto che l’aggressione all’occidente portata avanti dalla Russia attraverso l’Ucraina abbia prodotto un risultato opposto a quello immaginato da Putin, abbia cioè spinto l’occidente a smentire con i fatti l’esistenza di un ventre molle – è stato messo a dura prova nel fine settimana dalla lettura di un pezzo poco ottimista pubblicato dal Wall Street Journal dedicato a un triangolo minaccioso, composto da Iran, Cina e Russia. Al centro di questo triangolo vi è una traiettoria precisa: provare a stabilire un ordine internazionale parallelo per cercare di resistere insieme al tentativo degli Stati Uniti di danneggiarlo economicamente e militarmente. Questi tre paesi, ha detto Mark Alexander Milley, generale statunitense, capo di stato maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti dal 14 agosto 2015 al 9 agosto 2019, “insieme saranno problematici per molti anni a venire: la loro non la definirei una vera alleanza completa, ma li stiamo vedendo avvicinarsi sempre di più”.
La Cina, per dirne una, è il più grande cliente petrolifero dell’Iran, un mercato chiave che impedisce il collasso della sua economia pesantemente sanzionata, e a dicembre dello scorso anno la Cina è arrivata a importare la cifra record di 1,2 milioni di barili al giorno di petrolio iraniano, un aumento del 130 per cento rispetto all’anno precedente. Pechino, poi, nota ancora il Wsj, ha firmato un accordo di cooperazione economica e di sicurezza di 25 anni con Teheran nel 2021 per investire in aree come l’energia nucleare, i porti, le ferrovie, la tecnologia militare e lo sviluppo di petrolio e gas. Teheran, per dirne un’altra, ha fornito droni alla Russia, durante il conflitto contro l’Ucraina, ed è stato questa occasione la prima in cui l’Iran è intervenuto in una guerra per conto di un paese prevalentemente non islamico dai tempi della rivoluzione del 1979. E lo stesso Iran sta progettando di costruire una fabbrica in Russia per la produzione di velivoli senza pilota, sta prendendo in considerazione la vendita di missili balistici alla stessa Russia e lo sta facendo provando a far corrispondere a questo aiuto un trasferimento dalla Russia all’Iran di caccia a reazione, armi avanzate e un espansione del proprio commercio. Gli investimenti diretti da parte di società russe e cinesi in Iran, nota alla fine del suo ragionamento il Wsj, rimangono minimi, ed entrambi i paesi temono ancora che legare troppo strettamente le loro economie all’Iran li renderà un obiettivo delle sanzioni statunitensi contro Teheran.
Ma tutti questi elementi (che dimostrano anche quanta ragione abbia Macron a tentare di incunearsi nel nuovo asse del male attraverso un rapporto nuovo con la Cina) dovrebbero far riflettere coloro che considerano la resilienza dell’occidente un sinonimo di automatica decadenza dei nemici dell’occidente. E dovrebbe far riflettere anche chi ama l’Europa sull’impossibilità da parte della nostra unione politica di essere, come dice un vecchio saggio, l’unica erbivora in un mondo di carnivori. In un mondo che si muove in fretta, e che si riorganizza, il compleanno dell’Europa dovrebbe essere lì a ricordare che la scelta di non essere un gigante solo commerciale, e il tentativo di smettere di essere un colosso politico senza difesa, con obiettivi di politica industriale ma senza fondi comuni, merita di essere portato avanti. Come? Una piccola traccia per provare a far fare all’Europa un passo in avanti verso il suo percorso di crescita, una traccia piccola ma simbolicamente importante, la si è intravista la scorsa settimana, quando un gruppo di nove paesi membri, di cui fa parte anche l’Italia, ha messo nero su bianco, in una nota, la volontà di trasformare l’attuale modalità di voto per facilitare l’adozione dei provvedimenti all’interno della Politica estera e di sicurezza comune passando dalla stagione dell’unanimità a quella del voto qualificato, che significherebbe avere la maggioranza su un provvedimento con il favore di 15 stati membri che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione totale del blocco europeo. Ci sono ottime ragioni per celebrare oggi la festa dell’Europa, e ci sono ottime ragioni per essere ottimisti su quello che l’Europa è riuscita a fare negli stessi istanti in cui i nemici dell’occidente hanno scelto l’Europa per mostrare il ventre molle delle società liberali. Ma per festeggiare l’Europa come si deve occorrerebbe una volta per tutta avere il coraggio di sfidare non solo i professionisti dei veti ma tutti coloro che l’Europa la difendono sciaguratamente non quando si comporta da gigante ma quando si comporta da bancomat. Buon compleanno a tutti noi.