l'editoriale del direttore
Confrontarsi o fuggire? Le riforme istituzionali sono una prova di maturità per Schlein
Il coinvolgimento dell’opposizione sulle modifiche costituzionali costringe la leader del Pd a uscire dalla comfort zone del nuovo “ma anche”. Un passaggio difficile per una professionista dell’ambiguità. Le sue scelte non potevano che essere più chiare
Il coinvolgimento dell’opposizione sul terreno delle riforme istituzionali sarà un test utile non solo per misurare il piglio riformista della presidente del Consiglio ma anche per capire qualcosa in più rispetto a uno dei nuovi enigmi della politica italiana, un nuovo segreto di Fatima: la natura della leadership di Elly Schlein.
Giorgia Meloni, ieri, ha messo sul tavolo le sue carte, ha offerto ai partiti le alternative al presidenzialismo, ha evocato il premierato, non ha chiuso le porte al modello dei sindaci e ha dimostrato di essere intenzionata a giocare la partita delle riforme istituzionali non per manganellare la Costituzione, come sostengono i quotidiani del gruppo Gedi, ma per trovare soluzioni per risolvere un problema reale del nostro paese: la presenza di governi deboli dotati di poteri fragili. Quello delle partite istituzionali rappresenta un terreno interessante da studiare per ragioni storiche – sono anni che i governi tentano di cambiare la Costituzione, per rendere il sistema politico più efficiente, e sono anni che i governi cadono ogni volta che tentano di cambiare l’assetto istituzionale del paese: Meloni stai serena – ma anche perché ci permette di osservare da vicino una situazione anomala per la leadership del Pd: dover fare delle scelte. Fino a oggi, Schlein ha affrontato il suo rapporto con l’armocromia politica, ovvero con il bianco e il nero, ovvero con le occasioni in cui è stata costretta a mostrare la sua visione del mondo, rifugiandosi nella sofisticata arte della supercazzola. Ai tempi di Veltroni, il “ma anche” era lì a mostrare il tentativo dell’ex segretario del Pd di essere qualcosa ma anche il suo opposto. Oggi, ai tempi di Schlein, il nuovo “ma anche” è lì a mostrare un attitudine diversa: essere qualcosa ma spiegare di non poterlo essere del tutto a causa di un partito che ti costringe a muoverti in una direzione diversa rispetto a quella che tu imboccheresti se fossi pienamente libera di trasformare in azioni i tuoi pensieri. Sono a favore della resistenza in Ucraina, come chiede il mio partito, ma sono anche contraria all’invio prolungato delle armi. Sono attenta all’ambiente, ma sono anche non del tutto sfavorevole a sostenere le battaglie dei sindaci sui termovalorizzatori. Sono ben predisposta rispetto al tema delle surrogate, dell’utero in affitto, ma sono anche pronta a non farne una battaglia identitaria. Sono questo, ma anche altro. Per la prima volta dalla sua elezione a segretaria, ieri Schelin, a colloquio con Meloni sulle riforme istituzionali, è stata dunque costretta a entrare in una stagione difficile per una professionista dell’ambiguità – niente armocromia, solo bianco e nero – ed è stata costretta a fare i conti con un verbo fin qui magistralmente evitato: scegliere. E la scelta, sulle riforme istituzionali, non poteva e non potrebbe essere più chiara.
Scegliere se considerare o no come una pratica vergognosamente autoritaria la modifica di un pezzo di Costituzione. Scegliere se considerare o no come una pratica evidentemente fascista il rafforzamento dei poteri di un presidente del Consiglio. Scegliere se continuare a considerare scandalosamente di destra ogni riforma non di destra proposta dalla destra. Scegliere se buttare al macero anni di battaglie riformiste del Pd, compresa quella per rafforzare i poteri del premier. E scegliere se tentare o no di combattere il governo non solo dicendo quello che non deve fare – fascisti, vergogna! – ma anche mettendolo alla prova su ciò che sostiene di voler fare quando propone provvedimenti identici a quelli promossi in passato dal Pd. E’ possibile, come sostiene un vecchio saggio del centrodestra, oggi parlamentare del partito di Giorgia Meloni, che bene che andrà il primo tragitto del percorso delle riforme si concluderà con una “bicameralina”, una commissione di studio, una raccolta di progetti e di proposte, che potrebbe poi trasformarsi in una bicamerale costituzionale vera e propria. Possibile che vada così, ma impossibile non notare che la sfida delle riforme rappresenta il primo test utile non solo per misurare la trasversalità del presidente del Consiglio, che su questo fronte ha già incontrato le simpatie del cosiddetto Terzo polo, ma anche per capire se il Pd di Schlein Gpt sarà qualcosa di diverso da un semplice, sterile, controproducente e pericoloso algoritmo dell’ambiguità-tà-tà.