L'editoriale dell'elefantino
Il ciclo di riforme costituzionali non minaccia la democrazia, ma la nostra stabilità trasformista
A dispetto di quel che ci raccontiamo, l'Italia è uno dei paesi più stabili del mondo. Ecco perché un progetto riformatore dovrebbe fare i conti con la natura delle nostre istituzioni, capaci di sopravvivere a quasi tutto
Il conservatorismo costituzionale è una brutta bestia. Con il pretesto di salvare la democrazia dall’uomo solo al comando abbiamo nel tempo indebolito e poi liquidato alcune leadership importanti come Craxi, D’Alema, Berlusconi, Renzi, tutta gente di centro, di centrosinistra o schiettamente di sinistra. Napoleone III diceva alle élite del Secondo Impero: “Non abbiate paura del popolo, è più conservatore di voi”, e aveva in linea generale ragione. Diverse accozzaglie hanno impedito nei decenni di cambiare la forma di governo costituzionale, riformandola con monocameralismi premierati, ipotesi di elezione diretta dei presidenti, cancellierati e sfiducie costruttive, il loro slancio è sempre stato premiato dal voto conservatore delle maggioranze. A sorpresa l’unica riforma seria, ma incompleta, l’hanno fatta trasformisticamente i grillini (con ben due opposte maggioranze) e l’hanno fatta sotto vesti demagogiche, che sono il loro abito specifico originario: il taglio del numero dei parlamentari. Ora ci prova un governo di destra, e si avvia l’ennesimo dialogo istituzionale con sbocchi molto incerti.
Tuttavia, per come si è snodata nel tempo la nostra storia repubblicana, anche il più cocciuto riformatore costituzionale, anche il più tenace avversario del conservatorismo istituzionale in purezza, dovrebbe ora farsi delle domande. E chi scrive se le fa senza complessi. Cambiano le circostanze, cambiano le opinioni, come hanno detto in molti (da ultimo Mario Draghi sulla scia di Lord Keynes). Dunque. Si ripete, è una filastrocca che copre tutte le politiche e tutte le culture o quasi, che abbiamo avuto la media di circa un governo l’anno per oltre settant’anni. Ma è sensato dedurne che siamo un paese instabile? Non direi. A pensarci bene, senza faziosità e senza malizia, è vero l’opposto.
L’Italia è uno dei paesi più stabili del mondo. E la sua non è una stabilità pietrificata, è una stabilità trasformista. Dal varo della Costituzione del 1948 a oggi abbiamo integrato tutto, confessionalismi laicismi comunismi socialismi populismi e infine perfino postfascismi; abbiamo convissuto con il Vaticano nelle sue diverse incarnazioni, con i referendum di Pannella, con gli eredi di Stalin e Togliatti, con i gruppi azionisti e repubblicani, con i liberali di ogni conio, con i leghisti bossiani e poi salviniani nelle regioni e nello stato, con l’esplosivo fenomeno del berlusconismo che ci ha dato l’alternanza tra forze diverse alla guida del governo, compreso un presidente del Consiglio ex comunista, ma non le famose riforme istituzionali, con l’aggressione populista grillina, con i governi tecnocratici di emergenza e di unità nazionale, infine con un governo maggioritario guidato da eredi riformati della tradizione missina nella veste arbitrale di una giovane donna uscita dal nulla, da una minuscola gavetta con una minuscola classe dirigente che non sta facendo, un po’ di chiasso a parte, alcuno sfracello.
La Repubblica parlamentare trasformista ha digerito la crisi letale dei partiti di massa e ideologici, aveva attraversato con lutti e misteri l’inferno degli anni Settanta e del terrorismo politico di sinistra e di destra. Aveva fronteggiato le conseguenze stragiste delle guerre di mafia sconfiggendo la cupola corleonese, ha ingurgitato e risputato faziosità e intolleranza, è passata dalla mela di Einaudi all’immenso delirio scespiriano di Cossiga, per finire, dopo l’azionista Ciampi e il comunista riformato Napolitano, con la compostezza assorbente e collante di Mattarella al secondo mandato. Abbiamo prodotto autorevolezza di fatto, che non se la tira, senza Grandeur, una politica estera e di difesa che celebra da un anno, con capi del governo diversi e quanto diversi, un generale consenso euroatlantico contro le ombre autocratiche che vengono da Russia e Cina.
Abbiamo i problemi economici e sociali che hanno tutti, a partire dai nostri partner dell’Unione, e molti miliardi europei da spendere per tamponare alcuni derivati del nostro corporativismo e della nostra inerzia nella modernizzazione delle infrastrutture, ma ci confermiamo nel nostro posto storico di paese disordinato e coeso, capace di sviluppo e ripartizione della ricchezza sociale attraverso i servizi e il welfare e tassi a noi esclusivi di evasione o elusione fiscale, anche quella siamo stati capaci di integrare nel sistema del 110 per cento e dei bonus a sfare. Siamo parte della globalizzazione dei mercati e della sua parziale crisi di crescita, abbiamo trasformato i rischi fatali in occasioni insperate con una faccia tosta da eterni miracolati. La vera minaccia è stata l’aggressione della magistratura militante allo stato di diritto, ma anche quella minaccia è sulla via di un graduale rientro dalle spirali della demagogia anticorruzione e antimafia.
Dato il contesto storico, per me inoppugnabile, direi che un nuovo ciclo di riforme costituzionali per cambiare il sistema trasformista all’italiana non minaccia la democrazia, che non corre pericoli sensibili e anzi si compie nell’antifascismo dei postfascisti liberali; minaccia semmai la inaudita e strana coesione trasformista di una società leopardianamente inesistente e priva di senso dell’onore (Magatti ieri nel Corriere): questa Italia qui, quella vera e stabile dei regimi e delle alternanze e delle accozzaglie del conservatorismo costituzionale, che purtroppo per i nostri pregiudizi liberaldemocratici di natura dogmatica, bisogna dire che funziona, o almeno che fin qui ha funzionato.