Giorgetti cede sulla Guardia di Finanza. Ma ora con Meloni è rottura
Fiamme gialle, ceneri verdi. Il ministro leghista, dopo aver tentato di imporsi, subisce la scelta di Palazzo Chigi. Le accuse reciproche, i patti mancati per la successione a Zafarana. I sospetti del Carroccio su Mantovano. L'asse tra la premier e Via XX Settembre traballa
Le ultime resistenze le ha tentate mercoledì, prima di partire. Ma pure quelle già fiacche, come di chi sa che tutto sarà vano. E insomma alla fine Giancarlo Giorgetti ha ceduto. Comme d’habitude, si dirà, per uno abituato a impuntarsi fino al momento prima di battersi davvero. Ma stavolta, nel dire “fate un po’ come vi pare, se c’è da firmare firmerò” prima d’imbarcarsi per il Giappone, insomma in questa sbracata zuffa sovranista sulla Guardia di Finanza, stavolta sembra che davvero qualcosa si sia rotto, nel rapporto tra il ministro dell’Economia e Giorgia Meloni. “Perché se vuoi rendertelo ostile, uno come Giancarlo, devi fargli fare una figuraccia”, dice chi s’è confrontato con lui. E la figuraccia, nel ratificare una nomina che non approva, Giorgetti è convinto di averla già fatta.
Nel senso che il solo essere passato alla storia, in quella recente almeno, come il primo ministro dell’Economia che, almeno formalmente, non è riuscito a provvedere alla sostituzione del capo della Guardia di Finanza nei tempi stabiliti, lo ha reso furente. L’aver dovuto subire una scelta che non condivideva, poi, ha fatto il resto.
E non perché ci sia dell’astio personale, da parte di Giorgetti, verso quell’Andrea De Gennaro che a Palazzo Chigi è stato ritenuto, fin dall’inizio, il candidato più accreditato per la successione a Giuseppe Zafarana. C’è altro, di mezzo. C’è, anzitutto, uno spazio d’azione che Giorgetti, confortato dal dettato della legge, rivendicava come proprio. Per questo alla nuova stagione delle Fiamme gialle stava lavorando da tempo, sapendo che la transizione non sarebbe stata indolore. E dunque l’impegno per garantire una buona uscita a Zafarana, finito non a caso alla presidenza dell’Eni; e dunque una lista, che lo stesso generale in uscita aveva stilato per il ministro, coi nomi dei vertici più titolati per ricevere il suo testimone a Viale XXI Aprile, con una sottolineatura sul profilo di Umberto Sirico che non a caso il ministro aveva voluto ricevere. La riteneva una sua prerogativa, Giorgetti, dopo avere già dovuto dissimulare non poco l’insofferenza per la scarsa condivisione con cui Meloni aveva gestito la partita delle grandi partecipate.
E non basta. Perché, a quanto pare, se Giorgetti si era astenuto dai giudizi, a esprimere dubbi su De Gennaro era stato direttamente Matteo Salvini. Per motivi difficili da sondare, ma in qualche modo legati alla convinzione, abbastanza diffusa a Via Bellerio, che intorno alla figura di Alfredo Mantovano, sottosegretario solerte e discreto alla Presidenza del Consiglio, si vadano accentrando un potere eccessivo, che la scelta di De Gennaro, molto stimato dal magistrato pugliese, avrebbe ulteriormente rafforzato. Tanto più, e qui nella Lega abbassano sempre la voce nel dirlo, che ovviamente questa nomina si porta dietro l’ombra dell’altro De Gennaro, cioè Gianni, già capo della Polizia e del Dis, già sottosegretario alla Presidenza con delega ai servizi e presidente di Leonardo, maestro tuttora rispettatissimo di una intera generazione di sbirri e di spie, e pure lui vicino a Mantovano.
E insomma è per tutti questi motivi che, pare, Giorgetti avrebbe tentato la via della diplomazia con Meloni. Spiegandole che lui non poteva prendersi la responsabilità di mettere la firma su una nomina che avrebbe indispettito il suo stesso segretario di partito. “Per cui, ecco, tu e Matteo confrontatevi, su questo”. E la premier avrebbe risposto che sì, certo, capiva, e che ne avrebbe discusso coi suoi consiglieri. Salvo poi arrivare in Cdm, giovedì scorso, con quello stesso nome: Andrea De Gennaro.
E qui, ovvio, vanno illuminate anche le ragioni dei Fratelli d’Italia. Quelle un poco pretestuose, esposte da chi ricorda che all’epoca della formazione del governo fu Salvini, per strappare una poltrona in più, a dire che Giorgetti era da considerare “un ministro tecnico”, per cui “i ministri dell’Economia tecnici sulle nomine rispondono alla premier”. E quelle più di sostanza: ché non s’è “mai visto un premier che deve chiedere permesso al suo ministro dell’Economia, per scegliere il capo della Finanza”, e che i rapporti di forza sono chiari, e da quelli discende il resto. Per cui, in una congiuntura che ha visto Salvini, d’intesa con Matteo Piantedosi, portare a casa il capo della Polizia, con la promozione di quel Vittorio Pisani che col capo del Carroccio è da tempo in sintonia, e nella prospettiva di un successo leghista sulle nomine di competenza del Mit legate a Rfi e dintorni, “pretendere pure la Finanza era un po’ troppo”.
Ed ecco allora l’impuntatura patriottica, il mezzo blitz fatto in un Cdm, quello di oggi che vedeva l’assenza di Giorgetti, in viaggio verso il Giappone per il G7, e dello stesso Salvini, impegnato in un tour elettorale al nord. Tutto liquidato in poche righe senza precedenti: “Il Cdm ha preso atto che il ministro dell’Economia formalizzerà nella prossima riunione la proposta di nomina del Comandante generale della Guardia di Finanza, sulla base dell’accordo politico già raggiunto”. Ministro notaio, chiamato a ratificare ciò che altri hanno deciso? Pure questa, obiettivamente, non una gran figura. Con la sensazione, al dunque, che la trama che teneva insieme Palazzo Chigi e Via XX Settembre, in una cordialità di modi e una condivisione di metodi che sopiva le crescenti tensioni tra Lega e FdI, si sia sbregata davvero, stavolta.