Il miracolo di Roma, città da sempre ambigua che è diventata capitale della controffensiva ucraina
Che Draghi tenesse ferma la barra del timone quando Putin ha attaccato e l’Ucraina ha resistito, e l’Europa in armi ha ricostruito il Patto Atlantico con il famoso viaggio a Kiyv, era appena ovvio. Che lo facesse Meloni, senza mai smarginare, questo è un altro paio di maniche
Se Roma è diventata una capitale della controffensiva politica, militare e diplomatica degli ucraini, una città in divisa che accoglie Zelenzky come un liberatore del suo popolo e un tutore dei confini occidentali, qualcosa questo deve significare. Qualcosa deve poter spiegare il miracolo: Roma è sempre stata capitale dell’ambiguità, specie in politica estera e di difesa, e l’adesione degasperiana al Patto Atlantico nella guerra fredda aveva sempre trovato nemici e critici ben al di là del filosovietismo naturale di Togliatti, basti pensare a Dossetti e Fanfani e lo stesso Moro, anime eccellenti dell’esperienza democristiana di governo della società e per certi aspetti della chiesa.
Non mi sembra molto importante il solito giro di valzer alla Rai. Per non dire del dibattito inutile sulla fine dell’egemonia della cultura di sinistra, da decenni relegata allo status di sottocultura mediatica dalle sue stesse avventure conformiste (dall’accademicismo semiologico di Umberto Eco alla bella confusione chiacchierona di Fabio Fazio). Viene perfino il sospetto che la cultura, antimoderna e pessimista in antropologia, sia costituzionalmente di destra, sia una letteratura e una filosofia del legno storto dell’umanità, e non abbia alcun bisogno di legittimazione. Ma non importa. Importa come sempre, solo e soltanto, la politica. Che nel nostro sistema trasformista si esprime invece nel trionfo del bisogno di legittimazione.
Il bisogno di legittimazione ci aveva dato negli anni un partito comunista (e discendenti e affini) di tipo europeista, e poi amico degli americani, da Amendola a Napolitano. Lo stesso bisogno ci ha dato una destra euroatlantica, che sta dalla parte giusta nell’unico teatro che conta oggi, quello della guerra e della pace, da Meloni a Meloni. Per quanto ci riguarda il 2022 sarà indimenticabile, come fu per il 1956 della repressione in Ungheria e poi dell’avvio della destalinizzazione, anno cruciale per la sinistra che si divise e alla fine generò la seconda e decisiva fase della modernizzazione politica dopo il boom, il centrosinistra. Che Draghi tenesse ferma la barra del timone quando Putin ha attaccato e l’Ucraina ha resistito, e l’Europa in armi ha ricostruito il Patto Atlantico con il famoso viaggio a Kiyv, era appena ovvio. Che lo facesse Meloni, senza mai smarginare, senza dare adito a equivoci, senza lasciare che si potesse presumere anche la minima riserva mentale, questo è un altro paio di maniche.
Il governo che “scommette sulla vittoria”, apre le porte al comico ebreo che la incarna in mimetica nazionale, espone le bandiere gialle e azzurre en plein air dal Quirinale a Palazzo Chigi, siede a un chilometro dal Vaticano e agisce in uno scenario sprezzemolato da riserve pacifiste, da inviti al dialogo untuosi e ipocriti della classe discutidora, dal rigetto della fornitura d’armi alla Resistenza in nome di un 25 aprile che non esiste e non è mai, in quanto spirito di resa, mai esistito. Tutto questo lo dobbiamo a scelte soggettive che fanno premio sulle torpide ambivalenze della politica politicante, e complimenti alla ragazza, e al bisogno di legittimazione, una forza trainante del sistema che integra e produce cambiamento e rafforza le istituzioni dell’alternanza, reinventate tanti anni fa dal geniaccio rivoluzionario di Berlusconi, ora vittoriose dopo l’esaurimento dei girotondi ballati al sol dell’avvenire.